domenica 30 settembre 2012

Flex-security o secur-flexibility?

Per Renzi non poteva capitare momento migliore per candidarsi: il centro destra è allo sfascio e il centro sinistra lo sarà tra poco, per cui un candidato di centro sinistra ben accolto anche da molti del centro destra è l'uomo giusto per riunire il peggio dell'attuale politica. Ivan Scalfarotto continua a sostenere che Renzi "è lo tsunami che ci serve per liberare finalmente il partito nuovo dai suoi fantasmi e dargli la libertà di costruire le sue storie, le sue tradizioni, le sue carriere". Su queste ultime non ci sono dubbi, sul resto lo dirà il tempo.

Quello che maggiormente preoccupa nel programma di Renzi non è l'adesione di un'élite di giovani che, per capacità, abilità, facilità a relazionarsi e fortune esterne hanno raggiunto una certa posizione, ma l'adesione al progetto della Flexsecurity  del senatore Ichino, tratta dal modello danese. Innanzi tutto è necessario capire che cosa sia e su cosa si basa questo modello, per cui vi esortiamo a leggere l'articolo di Charles-Henry Besseyre, Docente all'HEC di Parigi, Cos'è la flexsecurity? Uno sguardo al modello danese, tanto per avere un'idea chiara di cosa stiamo parlando. 
Molto sinteticamente, il progetto si basa su tre pilastri: una grande flessibilità del mercato del lavoro, una buona protezione dei lavoratori e politiche attive per l'occupazione. In Danimarca! Sempre per motivi di spazio, sarebbe interessante leggere la Scheda sintetica del progetto flexsecurity, estratta dal blog di Pietro Ichino, dove sono spiegati tutti i passaggi: dall'assunzione al licenziamento (con le mensilità di indennizzo, in funzione del tempo di lavoro effettuato), dal sostegno (con le percentuali regressive di sostegno al reddito in funzione del tempo di disoccupazione) alla riqualificazione, fino alla pensione.
In prima analisi sembrerebbe un sistema ottimale: le imprese sono libere di assumere e licenziare quando e quanto vogliono; i dipendenti non hanno nulla da temere perché lo stato li aiuterebbe economicamente e nella ricerca del nuovo lavoro (tra l'altro le aziende dovrebbero concorrere nei costi!). 
Premesso che non è un caso che molti paesi europei hanno già analizzato o lo stanno facendo il modello danese e che è altrettanto un caso (molto raro) che sia stato adottato, per la difficoltà di importare un modello che ha le tipicità di un determinato paese, per altro piccolo e con una specifica cultura. A tal proposito, Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, ricorda l'esempio della Elettrolux, che doveva governare l'eccedenza di 700 addetti, con robusti incentivi all'uscita e al prepensionamento, nonché un contributo all'auto-imprenditorialità di ben 37mila euro e la garanzia aziendale per l'ottenimento di un fido bancario di 50mila euro. Progetto che ricorda molto da vicino la flexsecurity, ma che non ha ottenuto i risultati desiderati, salvo la parte "tradizionale, quella che mette mano al portafoglio per concedere incentivi alle dimissioni".
Pur non tenendo conto che l'Italia si trova in un periodo di recessione e che avremo davanti a noi anni di austerità; pur facendo uno sforzo sovrumano di credere che esistano ancora politici interessati al bene dei lavoratori, la domanda è: come e con che cosa sarà possibile ricollocare i lavoratori? E non si parla solo di vile denaro, ma attraverso quale agenzia? Chi la dovrebbe dirigere e come sarà controllata, sia dal lato organizzativo che professionale? Quale autorevolezza potrebbe mai avere davanti a imprenditori o manager come Marchionne, che sanno molto di finanza e poco di impresa? Basti leggere gli ultimi avvenimenti e sarebbe interessante capire come sarebbe possibile gestire una fiumana di lavoratori davanti ad un manager che non sa investire nel futuro ma, come fa un buon finanziare, si ferma in attesa di un miglioramento del mercato e non riesce a leggere le esigenze dello stesso.
Secondo Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro della Bocconi, ritiene che oltre agli ostacoli strutturali innegabili, la flexsecurity richiede enormi finanziamenti: "Solo per dare un'idea del peso finanziario richiesto da uno schema di questo tipo: secondo l'Oces le spese sociali in Danimarca rappresentano il 41% dei contributi pretasse, contro il 27% dell'Italia. Il carico fiscale in Danimarca raggiunge circa il 30% contro il 18% italiano".
Si dovrebbe chiedere agli italiani di pagare il doppio di tasse  e il 14% in più di contributi...in un Paese dove poco o niente è stato fatto contro l'evasione fiscale e dove la fuga dei capitali all'estero è in continua ascesa. Dove si troveranno i soldi per finanziare un progetto di questo genere?
Davanti ad una politica inetta, corrotta e dilapidatrice, il governo Monti ha mostrato chiarezza di intenti tanto cari alla destra e, come scrive Alessandro Gilioli, in meno di un anno ha imposto "meno pensioni, meno diritti sul lavoro, più licenziabilità, tagli al welfare, fiscal compact e pareggio di bilancio in Costituzione".
Chi propina un simile progetto, sa benissimo che per la sua realizzazione sarebbe necessario un cambiamento culturale che, nella sua vastità, riguarderebbe l'aspetto economico, lavorativo, politico e sociale e servirebbero diversi anni di sana politica di "esempio" e di "creazione di fiducia".  Imporlo nelle condizioni attuali creerebbe solo le condizioni per legalizzare disoccupazione e povertà. D'altronde, ci sarà pure qualcosa di sbagliato in un Paese che ha un sistema fiscale talmente iniquo "che un lavoratore con un salario tra i 15 e i 20mila euro è assoggettato ad un'aliquota minima del 23%, mentre un manager che guadagna 5 milioni di plusvalenze, grazie al meccanismo delle stock options sulle azioni, paga il 12,5%". Il primo passo per chi dovesse vincere, candidato o "fazione politica", dovrebbe rendersi conto che l'occupazione non può essere affidata al mercato, specie se in presenza di una crisi di così lungo corso e che si  dovranno adottare robuste politiche keynesiane. Le politiche di questi ultimi vent'anni hanno sposato l'idea che la maggiore flessibilità avrebbe ridotto la disoccupazione...mai matrimonio fu più sbagliato!
Tempo fa, Mario Draghi disse che la precarietà non nuoce solo alle persone, ma anche alle aziende. Sta di fatto, che la politica non si avvede, o fa finta, che negli ultimi 15-20 anni la crescita delle disuguaglianze ha raggiunto vertici impensabili e che nel prossimo futuro saranno necessari interventi e politiche atte a ricreare fiducia nella gente. Soprattutto,  dare di nuovo ai lavoratori la speranza del futuro. 
Scrive Luciano Gallino in Globalizzazione e disuguaglianze: "...chi pensa di rendere permanente, quale elemento naturale della nuova economia al tempo stesso globalizzante e localizzante, un tasso elevato di lavori in vario modo classificabili come insicuri perché temporanei, precari, non competitivi, dovrebbe riflettere sul fatto che il senso di insicurezza per il proprio destino individuale e familiare, unito al tasso di angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più violenti movimenti sociali della storia, di sinistra come di destra".





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