mercoledì 30 marzo 2011

CHE ANCHE LE BANCHE PAGHINO!

E' uno di quei post speciali e che ti rendono la giornata più felice. Come quando ti alzi  la mattina, dopo una bella dormita, e ti rendi conto che sarà una giornata speciale.

lunedì 28 marzo 2011

MANGIARE MENO: la ricetta contro la povertà.

Secondo i dati Istat, a gennaio le vendite al dettaglio sono calate del 1,2 per cento rispetto allo stesso mese del 2010 (a ridosso di un anno di crisi terribile) e dello 0,3 per cento rispetto a dicembre. Su base mensile pesa soprattutto la performance del comparto alimentare (- 0,5 per cento): una riduzione così forte non si registrava da maggio 2010, in calo persino gli acquisti alimentari.

sabato 26 marzo 2011

STORIE DI ORDINARIA ASSURDITA'

A seguito del rimpasto di governo, viene nominato ministro Saverio Romano, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione. Senza considerare le parole poco lusinghiere ( per usare un eufemismo!) che lo stesso ha scritto su Facebook nei riguardi di Berlusconi e solo pochissimo tempo fa. Il Quirinale muove le dovute e giuste obiezioni. La Lega, che spesso finge di indossare la candida veste, non muove nessuna obiezione, anzi, si presume che abbia concordato tale nomina. Quando si dice i giochi di potere!

venerdì 25 marzo 2011

INVESTIMENTI ESTERI IN ITALIA: DANNO O OPPORTUNITA'?

Nel post del 24 marzo, Se il lavoro è il futuro, diamoci una mossa, abbiamo scritto del saggio di Fabiano Schivardi, circa l'opportunità o meno di creare le basi per richiamare gli investimenti dall'estero. Noi concordiamo con l'autore che sono necessari, anzi, siamo convinti che siano benefici. A completamento del post precedente, vogliamo inserire il video nel quale c'è una breve intervista dell'autore e, tra l'altro, molto interessante.

giovedì 24 marzo 2011

SE IL LAVORO E' IL FUTURO, DIAMOCI UNA MOSSA.

Sul Sole 24 ore di ieri c'era un'intervista ad Anna Maria Artoni, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, e' il lavoro il nodo del futuro, nella quale fa una disamina dell'andamento del lavoro nelle regioni di sua pertinenza: si evidenzia una leggera, ma sofferta crescita, sulla quale incombono come macigni le debolezze del sistema Italia e le incertezze internazionali, si veda il Giappone e la Libia. Ciò che salva quelle regioni è l'export che ha creato un clima di fiducia fra le imprese industriali, che si aspettano un a prima parte del 2011 in positivo. Ciò che maggiormente incide sulla frenata della crescita, tanto che è ipotizzabile prevedere un aumento del tasso di disoccupazione, da un 5,8% ad un 6,5%, è dato dai consumi interni che non ripartono e dai tassi di crescita, + 1% il Pil previsto per fine 2011, che sono troppo bassi affinché l'occupazione torni ai livelli precedenti la crisi. 

martedì 22 marzo 2011

LA GIUSTIZIA DIVINA

Come ogni sera, prima di scrivere sul nostro blog, facciamo un giro su facebook e twitter per leggere le notizie e per incontrare gli amici e ci siamo inorriditi a sentire il video allegato, che abbiamo preso da "Laicità dello stato". E' un video di Radio Maria, nel quale De Mattei, vicepresidente del CNR, parla delle tesi di mons. Mazzella, arcivescovo di Rossano Calabro " Catastrofi: castighi divini"

domenica 20 marzo 2011

LAVORO FLESSIBILE E OCCUPAZIONE

In tutto il mondo le imprese si sono impegnate ad utilizzare la minor quantità possibile di mano d'opera, preoccupandosi di aumentare a dismisura la produttività del lavoro. sviluppando, parallelamente, strategie di utilizzo dei lavoratori nella quantità necessaria per soddisfare la domanda a breve termine. E in ciò sono state aiutate dalle sempre più sofisticate tecnologie dell'automazione, dell'informazione e delle telecomunicazioni, senza contare che i nuovi modelli organizzativi, come la produzione snella, la Qualità totale e le ristrutturazioni aziendali hanno dato una sensibile mano a rendere più flessibile sia la produzione che l'occupazione.

venerdì 18 marzo 2011

VIVA L'ITALIA: uno Stato senza Nazione

Abbiamo festeggiato i 150 anni dell'Unità d'Italia si è cantato e suonato l'Inno di Mameli, si sono esposte le bandiere tricolori ai balconi, forse non molte, ma non c'è sembrata una celebrazione degna di tale ricorrenza. C'è venuto in mente il libro dell'ex Presidente della Repubblica, Azeglio Ciampi, Non è il paese che sognavo. E' vero, non è il Paese che sognavamo. 

mercoledì 16 marzo 2011

DESTRA, "SINISTRA SIMIL DESTRA"...E LA SINISTRA?

In questi giorni abbiamo letto due articoli molto interessanti su Micromega: il primo di Emilio Carnevali, poveri noi, povera Italia, che fa un rapido passaggio sul saggio di Marco Revelli, Poveri noi; il secondo è la traduzione di Laura Franza dell'articolo scritto da Zygmunt Bauman su Social Europe Journal, l'insostenibile deriva neoliberale delle socialdemocrazie europee.

lunedì 14 marzo 2011

LETTERA AD UN IMPRENDITORE: la modernità di Simone Weil

Sistemando la catasta di appunti, che da anni cresce in modo disordinato, ho avuto occasione di rileggere alcuni passi tratti dal libro di Simone Weil, La condizione operaia, che avevo utilizzato per spiegare che cos'è stato il taylorismo, attraverso l'esperienza di lavoro in fabbrica dell'autrice. Rileggendoli dopo tanto tempo mi sono reso conto di quanto fossero ancora attuali le sue osservazioni, specialmente analizzando il lavoro in generale e non nelle sue specificità.

sabato 12 marzo 2011

CONCILIARE IL TEMPO DI LAVORO CON IL TEMPO PER LA FAMIGLIA

Abbiamo ancora a memoria il testo di Alain Supiot, Il futuro del lavoro, elaborato per la Commissione europea, per non apprezzare l'intesa di creare un tavolo tecnico, da parte del Governo e delle parti sociali, sulle linee guida per la conciliazione degli orari tra lavoro e famiglia. La soddisfazione è maggiore, in quanto la pre-intesa è stata firmata anche dalla Cgil. Per la prima volta, rendiamo merito al Ministro Sacconi  sia dell'avvio di questa importante iniziativa e sia per l'intenzione espressa: "un atto concreto in favore delle donne e della famiglia". Conciliazione orari lavoro-famigliaVediamo nello specifico cosa dovrebbe riguardare questo tavolo tecnico, che dovrà concludere i lavori entro 90 giorni, quindi, a distanza di un anno, verificare il grado di diffusione di tali pratiche.

giovedì 10 marzo 2011

IO, NEET!...E TU?

Leggiamo su Il Fatto Quotidiano l'articolo di Stefano Feltri, laurea in crisi: studiare serve sempre meno, che riporta dati e analisi ricavate dal libro della professoressa Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, che è un saggio sulla libertà di non studiare e che fa riferimento a dati statistici rilevati dal consorzio degli atenei, Almalaurea, su 400 mila laureati. In maniera sintetica estrapoliamo alcuni dati significativi, che ci servono come premessa per parlare dei giovani Neet (non studiano, non lavorano e non si formano).
Premesso che secondo l'89% dei dirigenti aziendali responsabili delle risorse umane i laureati italiani possiedono le competenze richieste, allora perché fanno sempre più fatica a trovare lavoro e con stipendi sempre più bassi? I dati di Almalaurea riguardano i giovani che hanno completato gli studi, quindi non facciamo riferimento ai così detti Neet.
Se ci riferiamo al tasso di disoccupazione: per le lauree triennali il tasso passa dal 15% al 16 % mentre per la specialistica va dal 16% al 18%. Se osserviamo, invece, il tasso di occupazione: tra il 2007 e il 2009 scende di sei punti per le triennali e di sette punti percentuali per le specialistiche e di 8,5 punti per quelle a ciclo unico. Vengono formulate due spiegazioni a sostegno di quanto sopra evidenziato: la prima, che i laureati di secondo livello possono scegliere tra lavoro e dottorato, quelli triennali no, e in momenti di crisi è più facile decidere di continuare a studiare in attesa di tempi migliori; la seconda, che i triennali costano meno. La riprova sta nel fatto che con la specialistica gli stipendi sono in discesa libera. Se per le triennali si è avuto un calo del 5% , con le specialistiche siamo arrivati al 10,5%.
Viene spontaneo chiedersi se valga ancora la pena di studiare: secondo i dati Istat elaborati da Almalaurea, vale ancora la pena, perché nel corso di tutta la vita i laureati hanno un tasso di occupazione del 77% e i diplomati del 66%; inoltre lo stipendio, comunque sia, è migliore, specie se si è disposti ad andare all'estero.
Almalaurea avverte: "Sarebbe un errore imperdonabile sottovalutare la questione giovanile o tardare ad affrontarla in modo decisivo".
Adesso ci poniamo il quesito di come risolvere il preoccupante problema dei Neet, dopo aver letto l'articolo, non studio, non lavoro e non "mi formo", di Andrea Lavazza per La Rivista Il Mulino.Sinteticamente, l'autore si pone il problema di come intervenire e con quali mezzi per risolvere il problema dei Neet. Naturalmente non possiamo non condividere che è un "enorme spreco sociale ed economico" avere un record negativo, a livello europeo, del 21,2% (poco più di 2 milioni) di giovani, fra i 15 e i 29 anni, non più inseriti in un percorso scolastico-formativo e neanche impegnati in attività lavorativa. Come, del resto, condividiamo che a fronte di scarsa o nulla contribuzione, i Neet beneficiano di tutte le prestazioni e i servizi garantiti dalla cittadinanza. Concordiamo anche con le analisi del Censis che vede, proprio nella fascia di età fino ai 34 anni, la percentuale più alta di quelli che ritengono la mancanza di un impiego dovuta alla indisponibilità ad accettare mestieri faticosi e di basso prestigio sociale. Ciò c'è di quotidiana esperienza, quando facciamo colloqui di lavoro e vediamo rinunciare a lavori a tempo determinato e con l'impegno dichiarato di assunzione a tempo indeterminato, allo scadere del primo, solo perché lavori a turno o non adeguati al titolo di studio e non perché ritenuti faticosi o particolarmente stressanti.
Premesso che nessuno può obbligare a far fare un tipo di lavoro anziché un altro o di frequentare un corso piuttosto che un altro, l'autore propone una serie di "incentivi negativi", una sorta di "paternalismo soft", che non hanno il compito di "costringere" alcuno a fare (o non fare) alcunché, ma tendono a dare un certo indirizzo ai giovani verso un certo modo di comportarsi. Ad esempio suggerisce che chi non sia in possesso di un "patentino" di "non Neet" deve pagare di più i trasporti, maggiori costi sul bollo auto, le spiagge, le mostre ecc. a gestione pubblica. E' indubbio che tali provvedimenti siano più di ordine simbolico e indirizzati a richiamare l'attenzione al problema, di sensibilizzare le famiglie, gli operatori scolastici e le istituzioni. Soprattutto servono per creare al Neet quel senso di disagio ad utilizzare le cose pubbliche, che più desidera utilizzare, ma che non concorre a mantenerle come chi lavora.
A questo punto sorgono spontanee alcune domande: ma perché l'Italia ha più Neet degli altri paesi? Perché i nostri giovani sono più restii a lavorare o ad accettare lavori non conformi alle loro aspettative, rispetto ai giovani degli altri paesi Ocse? Infine, sono utili, oltre che costosi e difficili da gestire, gli "incentivi negativi" per chi, cronicamente, non vuol lavorare?
Noi non mettiamo in dubbio che certe proposte, tipiche di un "paternalismo soft", possano arrivare a creare delle sensibilità al problema, ma ciò che ci lascia perplessi è: quali sensibilità? La famiglia non è sensibile al fatto che il figlio non fa niente? E se la famiglia non ha la forza di persuasione necessaria  sul proprio figlio, cosa sono quegli "spiccioli" in più da pagare per rimanere Neet? Le Istituzioni sanno benissimo i costi che pagano e pagheranno per questa assurda e inaccettabile situazione, ma, evidentemente, o hanno altre priorità, o sono dannatamente incapaci di trovare delle soluzioni, oppure, ciò è ritenuto il minor male al minor costo. La scuola, che ha nel suo Dna la precarietà, può solo insegnare al giovane l'importanza dell'istruzione, della formazione e del lavoro, proprio perché elementi partecipanti e importanti del vivere sociale, ma niente può fare se ai loro insegnamenti fa riscontro un mercato del lavoro che non riesce a dare risposte alle richieste dei giovani.
Quello che dobbiamo chiederci se tutto ciò non sia concausa di tanti elementi, che sono riusciti a creare un "allontanamento dalle responsabilità sociali": una scuola che non da più speranze di riuscita e dove i titoli di studio superiori hanno sostituito quelli inferiori solo come posizione e non come reddito; un mercato del lavoro a tempo indeterminato che si contrae sempre più su pochi eletti, relegando la grande massa in lavori precari, intermittenti, poco pagati e dove sono sempre più necessari lavoratori "usa e getta"; sempre più famiglie in difficoltà ad arrivare a fine mese, che abbandonano la cura dei figli per fare anche due lavori, pur di pagare le scadenze del mese, oppure talmente impegnate a cercarsi un nuovo lavoro, che non hanno il tempo e la forza di avere la sensibilità verso il figlio Neet; un capitale che cerca costantemente strategie per la riduzione del valore-lavoro; una politica assente, impreparata e succube delle pressioni del capitale, che non riesce o non vuole rendersi sensibile al problema. Se non si mette mano a tutti questi problemi o se non viene sancita e concretamente valorizzata l'importanza sociale del lavoro, cosa possono servire gli "incentivi negativi"? Per paradosso, ci dovremo abituare a sentire sul treno o in piscina: "Che lavoro fai?", "Io, Neet!...e tu?"






martedì 8 marzo 2011

IL LAVORATORE "USA E GETTA"

L'obiettivo delle imprese è la riduzione dei costi fissi e in questa fase, di continua ristrutturazione, gli obiettivi sono due: ridurre al minimo l'utilizzo di mano d'opera, semmai, giusto il tempo necessario, e l'altro, di trasferire tutti i rischi su chi lavora.
A tal proposito suggeriamo la lettura del testo di Marco Panara, La malattia dell'Occidente, dal quale ricaviamo i dati di seguito utilizzati per avere una panoramica del tentativo costante e pressante, da parte delle imprese e delle istituzioni, di aver fatto perdere il valore sociale del lavoro e di averne distrutto il valore economico, attraverso la flessibilità e il suo costante utilizzo, tanto da trasformarla in precarità. 
Attraverso la flessibilità le imprese conseguono la riduzione del costo del lavoro, remunerandolo solo quando serve e nella quantità che serve, riducendo il rischio di impresa, limitando i costi fissi e lasciando i lavoratori senza la garanzia della continuità del lavoro e quindi del salario. Ma non sempre la flessibilità corrisponde alle esigenze produttive, spesso è un modo, sicuramente non legale, per comprimere il costo del lavoro. Se andiamo a vedere le statistiche nei maggiori paesi industrializzati (Ocse) si vedrà quanto sia diffusa questo tipo di illegalità. 
Nei soli Usa si parla di 3,4 milioni di lavoratori, che lavorano in modo continuo e con incarichi  specifici presso aziende, ma con paghe più basse, ore di straordinario non pagate, ferie non retribuite e nessun contributo assicurativo e previdenziale. Quindi c'è l'esercito dei lavoratori temporanei, che in Giappone sono il 13,6%, in Europa, fino al 2005, erano il 15%, poi sceso al 13,5% nel 2009, ma solo perché a causa della crisi non sono stati rinnovati moltissimi contratti a tempo. 
Nel nostro paese, secondo l'Istat, i lavoratori a termine, nelle sue svariate forme, sono oltre 3,5 milioni, con un reddito pro capite di 8.800 euro l'anno, contro i 15.900 della media nazionale. Il minor guadagno non è dovuto solo alla discontinuità del lavoro, ma anche al fatto che i lavoratori temporanei percepiscono, in media, il 24% in meno dei dipendenti a tempo pieno. Sempre secondo l'Istat (2008) circa 600.000 sono lavori temporanei con inizio da meno di due anni e 1.300.000 da più di dieci anni e, dramma nel dramma, con un'età media dei lavoratori di 40 anni. Qualcuno si scandalizza quando si scrive che sono vite frammentate, alle quali non è concesso progettarsi un futuro e che ha enormi difficoltà a staccarsi, economicamente, dalla famiglia, quindi l'impossibilità di costruirsene una propria. Senza contare il tristissimo futuro previdenziale e con redditi insufficienti per accumulare una pensione.
L'Italia, inoltre, ha anche una piaga peggiore, il lavoro nero: assenza di diritti, non esiste la busta paga, ferie, tasse e assicurazioni contro l'infortuni. Secondo l'Istat (ma è una stima, per la difficoltà a censire adeguatamente un fenomeno sommerso) sono 2.600.000 i lavoratori in nero (10,5% sul totale) . Una enormità. 
Ora, se facciamo la somma fra i lavoratori part-time (14,1%), che molto spesso non è una scelta volontaria, i lavoratori temporanei (12,5%) e quelli in nero (10,5%) si ottiene un 37,1% sul totale degli occupati. Questo è l'esercito dei lavoratori  italiani a basso salario e con pochi o nessun diritto. Sono i lavoratori che risentono e subiscono l'oltraggio del deprezzamento del lavoro e la perdita del suo valore economico. Non solo non vengono pagati di più perché utilizzati solo in caso di necessità, ma devono subire anche la violenza di un mercato che non funziona bene, perché, da parte del capitale e della debolezza o passività dei governi, non vi sono interessi, volontà o forza per farlo funzionare.  
Per chi scrive, che dal 1973 è nel mondo del lavoro, il sogno era il "lavoro per la persona" e aveva sperato che l'Europa, con la direttiva comunitaria 93/104 (art.13), in cui si esortava a mettere in pratica il "principio generale dell'adeguamento del lavoro all'essere umano", si avviasse verso quel traguardo per ridare dignità al lavoratore e "di nuovo" un valore sociale al lavoro, che sembra sempre più prerogativa di pochi. Purtroppo, invece, la strada sembra portarci verso un nuovo soggetto del lavoro: il lavoratore "usa e getta". 


domenica 6 marzo 2011

E' POSSIBILE UNA GLOBALIZZAZIONE DAL VOLTO UMANO?

Il mondo opera come un grande mercato del lavoro, in cui un certo lavoratore di un certo articolo, fatto in un paese europeo, entra in diretta concorrenza con un lavoratore dello stesso articolo prodotto in un estremo paese dell'Asia. Ormai il mondo è diventato piccolo, tanto che si può parlare di "vicinato globale", come asserisce Luciano Gallino. E' necessario capire che cos'è la globalizzazione, se crea o meno opportunità nell'ambito dell'occupazione, se riduce la povertà e se migliora la qualità della vita, insomma, se crea vere opportunità di crescita economica e, soprattutto, se è possibile, come sostiene Gallino, una "globalizzazione dal volto umano".
Se partiamo dal 1980, anno in cui si da come inizio della forte accelerazione del processo di globalizzazione, bisogna prendere in esame tutti quegli aspetti positivi che si sarebbero dovuti avere e decantati da chi la ritiene come un processo che reca solo benefici, in quanto favorisce le crescita economica, riduce la disoccupazione e aumenta la produttività, confrontandoli con il periodo precedente ( gli anni '50-'60 del secolo scorso), utilizzando i dati consegnati dall'Ocse.
In riferimento alla crescita del prodotto interno lordo, si evidenzia che negli anni'50 e '60 il tasso di crescita era intorno al 5%, negli anni '80 e '90 era sceso al 3,2% e successivamente poco sopra il 2%, fino al crollo del 2009, per cui a seguito della de-regolazione dei mercati interni si è avuto un netto peggioramento. Per non parlare della disoccupazione che, in Europa, ha rivisto il ritorno della disoccupazione di massa, dopo che negli anni '60, nei paesi dell'Ue, era scesa al 2%. Nell'autunno de 1999 le persone in cerca di lavoro erano 15,4 milioni, mentre nel 2009 sono salite a 17 milioni ( senza contare i non-occupati, gli scoraggiati ecc., perché la cifra salirebbe a due volte al tasso ufficiale di disoccupazione). Se poi passiamo dai paesi più avanzati al resto del mondo, allora si scopre che la disoccupazione non ha mai raggiunto i livelli come nell'epoca della globalizzazione. Infine la produttività   nei paesi industrializzati, si è praticamente dimezzata negli anni 1980-95, rispetto al 4% del 1950-73, per poi risalire solo a fine anni '90. C'è inoltre da evidenziare il forte aumento delle disuguaglianze di reddito tra la popolazione più ricca e la popolazione più povera, senza dimenticarci il degrado economico, sociale e culturale, e talora l'annichilimento fisico, di innumerevoli comunità locali, a seguito del processo di inurbamento.
A fronte degli effetti perversi della globalizzazione si è ipotizzata una global governance, un insieme di regole, stipulate a livello locale, nazionale e internazionale, coinvolgendo associazioni economiche, organizzazioni internazionali, sindacati ecc. 
A metà del 1990 si costituì, all'Onu, la Commission on Global governance (CGG), che nel suo primo rapporto scrive: La governance globale, che una volta si riteneva riguardasse primariamente le relazioni intergovernative, oggi coinvolge non soltanto i governi e le istituzioni inter-governative, ma pure le organizzazioni non governative (ONG), i movimenti dei cittadini, le corporazioni transazionali, le università e i mass media. L'emergenza d'una società civile globale, nella quale molti movimenti sono tesi a rafforzare un senso di solidarietà umana, riflette un grande aumento della capacità e volontà delle persone di prendere il controllo della propria vita [...] La governance globale non implica un governo mondiale e nemmeno un federalismo mondiale. Una efficace governance globale richiede una nuova visione, la quale sfidi le persone e al tempo stesso i governi a rendersi conto che non c'è alternativa al lavorare insieme per creare il tipo di mondo che esse vogliono per sé medesime e per i loro figli".
A fronte di ciò fu proposta la costituzione di un Consiglio per la sicurezza economica, che mai, di fatto, ha preso l'avvio, e nel frattempo gli effetti perversi sono continuati. L'efficacia della Commission on Global Governance è legata a due aspetti: il primo è dato dal poco peso politico ed economico delle Nazioni Unite e nell'astrattezza delle sue linee programmatiche; il secondo aspetto riguarda la mancanza di obiettivi concreti, anche se difficili da raggiungere, ma evidenti  e sottoposti a misurazione e comparazione.
Luciano Gallino propone degli obiettivi concreti per un'efficace global governance: ridurre lo squilibrio degli attuali rapporti tra l'economia finanziaria e l'economia reale, controllando i movimenti internazionali dei capitali e principale freno sia per l'occupazione che la crescita e lo sviluppo; ridurre le disuguaglianze internazionali e nazionali, ciò eviterebbe la nascita di conflitti a causa dell'insicurezza economica, oltre al vantaggio che avrebbero le imprese se un'aumentata quantità di persone potessero accedere ai beni e servizi da loro prodotti; assicurare una reale concorrenza fra le imprese; migliorare i contenuti qualitativi dello sviluppo economico, cominciando dalla loro misurazione in termini traguardi raggiunti; promuovere lo sviluppo locale.
Dare degli obiettivi certi e misurabili è molto importante, ma è altresì importante chi deve mettere in atto una tale governance e chi debba spingere, sollecitare e premere per ottenere una globalizzazione dal volto umano. Ci sono, oggi, istituzioni e organizzazioni internazionali che dovrebbero attivarsi a tal fine, come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Commissione europea e l'Organizzazione mondiale del commercio, unitamente ad altre organizzazioni regionali, nazionali e internazionali. Per quanto concerne la spinta e la sollecitudine deve venire dai cittadini, dai sindacati, dagli imprenditori e dalle organizzazioni non governative, perché, come scrive Gallino " se vi è qualcosa di drammatico nei processi di globalizzazione, ciò è appunto la mancanza di discussione; o, per essere più precisi, la mancanza di partecipazione democratica". 

venerdì 4 marzo 2011

A RUOTA LIBERA: pensieri attorcigliati

Per una volta vogliamo scrivere spunti di riflessione, in modo disordinato, senza nessun legame fra gli argomenti e senza doverli supportare con dati o prove o link di sostegno, ma solo scriverli. Come se fossero calzini su una tipica bancarella di un mercato rionale, dove ognuno rovista alla ricerca della giusta taglia, del giusto colore e della forma desiderata, fino a che non si trovano quelli che più ci aggradano, sempre che li si voglia comprare.

Sul Sole 24 ore abbiamo letto l'articolo di Jeffrey D. Sachs, Necessità vs. avidità, che consigliamo per la sua intensa e lucida drammaticità, e vogliamo estrapolarne due passaggi significativi: nel primo riportiamo una delle frasi più note del Mohandas Gandhi: "La Terra produce abbastanza per soddisfare i bisogni di ognuno, ma non per soddisfare l'avidità di tutti"; nel secondo, che fa seguito ad un'analisi della fine del nostro pianeta, qualora non si ponga un freno all'avidità economica :"Se a prevalere sarà l'avidità, il motore della crescita economica darà fondo alle nostre risorse, abbandonerà al proprio destino i poveri e ci spingerà in una profonda crisi economica, politica e sociale. L'alternativa è la strada della cooperazione politica e sociale, sia all'interno dei singoli paesi che a livello internazionale. Ci saranno risorse e prosperità a sufficienza per tutti se le economie passeranno alle fonti di energia rinnovabile, a pratiche agricole sostenibili e a una ragionevole tassazione delle classi agiate. Questa è la strada che conduce a una condivisione della prosperità, perseguibile con un incremento delle tecnologie, con la correttezza politica e la consapevolezza morale".


Consapevolezza morale che ha spinto il capitale ha diminuire costantemente, per il proprio arricchimento,  il valore-lavoro. L'Oil, Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel suo Global Wage Report 2008/2009 Scrive che nel periodo 1995 - 2007 "per ogni punto di crescita del prodotto interno lordo pro capite a livello mondiale [...] i salari medi sono cresciuti solo dello 0,7 per cento. Il che vuol dire che i salari medi sono cresciuti meno della produttività". Per questa analisi ci avvaliamo del testo di Marco Panara, La malattia dell'occidente. Cosa vuol dire il differenziale di crescita fra salario e produttività: se nel 1983, fatto 100 il Pil complessivo dell'Italia, 77 andava al lavoro e 23 al capitale, nel 2005 la quota che è andata al lavoro è scesa a 69 e al capitale31. Negli altri paesi le differenze sono, in certi casi, anche  maggiori. Tutto questo sposta ricchezze epocali. Per renderci conto di quali cifre stiamo parlando, basti pensare che un 8% sul Pil italiano sono 140 miliardi di euro; 9% sul Pil francese  e giapponese sono, rispettivamente, 180 miliardi di euro e 390 miliardi di euro. Complessivamente sono circa 1.500-2.000 miliardi di euro che ogni anno, nei paesi industrializzati, vengono dirottati al capitale anziché a remunerare il lavoro. Inoltre si è accentuata sempre più la concentrazione di alti salari a una fascia sempre più ristretta di persone, per cui, come scrive l'autore: "E' come se il Pil fosse una fonte dalla quale sgorga una certa quantità d'acqua che subito si avvia per due ruscelli. Uno ( quello che va al capitale) aumenta ogni hanno la sua portata, mentre l'altro ( quello che va al lavoro) non solo vede diminuire la sua portata, ma una parte sempre maggiore dell'acqua si ferma in pozze che si sono formate in alto e solo quello che resta, che è sempre meno, scorre verso valle". 


Forse la cooperazione politica e sociale, caldeggiata da Sachs, la ritroviamo nel trattamento che riserviamo agli extracomunitari, che sono venuti nel nostro paese per farsi una vita migliore, incontrando, molto spesso, un ambiente ostile e razzista? Per molti, da utilizzare come strumenti usa e getta e, una volta inutilizzabili, da rispedire da dove sono venuti. Eppure il nostro paese ha emigranti in ogni angolo della terra: Usa, Canada, Brasile, Argentina, Australia, Francia, Germania, Inghilterra Olanda ecc. Anche loro hanno dovuto subire soprusi e violenze e quante storie ancora sono presenti nelle nostre memorie, mai dimenticate. E' proprio per ciò che troviamo assurdo il comportamento che viene riservato ai nostri extracomunitari, che, infondo, partecipano alla crescita del Pil, ma che il 13% di queste famiglie non può sempre permettersi un pasto proteico  ogni due giorni (una percentuale più che doppia rispetto alla media italiana).


Non certo la cooperazione la si trova in Marchionne, che dietro il ricatto di spostare la produzione in altre nazioni, ha ottenuto dal referendum un risicato 51 per cento all'applicazione dei nuovi contratti ed è preso dalla tentazione di stravincere. Adesso, al di là degli accordi con i sindacati firmatari, impone il nuovo sistema in tutte le fabbriche e tenta l'ultima scalata: alla Bertone. Forse vuole tentare di dare un'ultima spallata alla Fiom? Vuol tentare di delegittimarla?  Una regola fondamentale in diplomazia è quella di far uscire il vinto in modo dignitoso, e la storia insegna. Non ci sarà mai, e questo vale  per gli imprenditori, i sindacati e il Governo, una vera ripresa economica, estesa, solida e duratura se non si lavorerà per una effettiva partecipazione dei lavoratori all'impresa. La conflittualità sarà sempre sulla porta di casa.


Non certo si ritrova una cooperazione politica e sociale nell'attuale Governo, che si riempe la bocca di proclami, di successi inesistenti, di mancanza di strategie e politiche di sviluppo economico; ciò lo pone in una condizione di servilismo nei confronti di manager e imprenditori che con il ricatto di "dare lavoro", cosa che al primo non riesce, riescono a ottenere più del lecito, magari con il plauso del ministro di turno. Senza contare che è preso interamente a sistemare le questioni legali del suo Premier, più che interessarsi dei problemi reali del Paese, come ad esempio, gli operai della Vinyls e Eurocoop, ai quali il Ministro Romani aveva assicurato il suo impegno a risolvere i loro problemi. Gli operai sono in cima alla gru per protestare, ma il nostro ministro  è troppo indaffarato. Sotto certi aspetti la vicenda della Vinyls ci ricorda la strategia del nuovo progetto di Termini Imerese: chi doveva rilevare questa azienda avrebbe dovuto investire 100 milioni di euro ma, ad oggi, la società ha un capitale sociale di 10.000 euro. 


Nella palude della politica s'è impantanata anche l'etica, con ministri che non sanno chi gli ha pagato la casa in pieno centro a Roma; funzionari della Protezione civile indagati; deputati "comprati" per mantenere la maggioranza; il Presidente del consiglio che ha più processi pendenti che impegni di lavoro;  un parlamentare eletto nell'opposizione che adesso fa il sottosegretario nell'attuale governo (Calearo) e leghisti che vorrebbero prendere a colpi di mitra i libici in fuga o rinchiuderli in campi di lavoro, oppure, visto che adesso non ci servono più, rimbarcarli e spedirli a casa Ma ci consola che la Germania non sta meglio di noi, visto che un suo ministro si è dovuto dimettere per un crimine "odioso e gravissimo" che meriterebbe l'ergastolo: ha copiato una parte della tesi di dottorato! Quest'ultima, con quello che succede da noi, sembra una comica di Paolo Villaggio.


Da noi, il 38% degli italiani non ha un diploma, un ragazzo su quattro che esce dalle medie inferiori non sa veramente leggere, scrivere e fare i conti. Su 4,5 milioni di laureati (al di sotto della media europea) ci sono 6 milioni di analfabeti di ritorno; oltre al fatto che solo un italiano su quattro ha gli strumenti adatti per orientarsi nel mondo moderno. Ma tutto ciò non crea problemi urgenti per il Ministro dell'economia, visto che la cultura non fa mangiare. Allora ci viene il dubbio che giornali, scrittori, professori, economisti ecc. che chiedono ricerca e sviluppo per guardare al futuro siano solo i "corvi " di turno; infondo la ricerca e sviluppo la si può fare anche con il carrozziere, il falegname o il contadino nostro vicino. Infondo non c'è necessità di ingegneri, biologi, chimici , matematici, dottori o ricercatori in altri ambiti, che vadano pure in altri paesi. I nostri giovani sono in tutto paesi del mondo e da noi sono veramente pochi gli stranieri che vengono a lavorare o fare stage. Non è certo per paura delle raffiche di mitra della Lega, ma, purtroppo, per il basso livello di preparazione che offriamo. A noi bastano le nostre veline, i nostri programmi culturali del tipo il Milionario, il Trasformista, il quiz a premi, la notorietà immediata e il facile successo, eredità culturale di una certa classe politica.


Che dire delle donne, che, se non sono bellissime e giovanissime, non sembrano degne di futuro e attenzione? O dei giovani, sempre più disoccupati, sempre più precari, emarginati e non degni di avere un futuro e una vita da costruirsi? 


Ci sorge il dubbio che più che un attorcigliamento di pensieri stia diventando un reticolo, fitto, circolare, quasi un recinto... di filo spinato. 








mercoledì 2 marzo 2011

SEMPRE PIU' POVERI: basta proclami.

In un precedente post ci auguravamo che il piano di salvataggio tanto reclamizzato dal ministro Romani, quello di sostituire, a fine anno, la Fiat di Termini Imerese con un un gruppo di 7 aziende, che avrebbero investito e raddoppiato l'occupazione entro il 2014, non fosse uno spot elettorale, tipico di un Governo in crisi e che cerca consensi, anche a costo di giocare sulla pelle degli altri. Abbiamo letto su Il Fatto Quotidiano che quel piano potrebbe essere un bluff, Termini Imerese, il piano rischia di diventare un bluff, per le difficoltà economico-finanziarie di almeno tre dei sette possibili investitori. Ora, noi non crediamo che il ministro Romani  non sia a conoscenza della reale situazione economico-finanziaria delle   imprese che fanno parte dell'elenco da lui fornito, per cui ci sorge il dubbio o che sia effettivamente una bufala, oppure, e sarebbe ancora peggio, che sia una di quelle operazioni che hanno fatto il disastro dell'Italia. Da una parte abbiamo il Governatore della Banca d'Italia che, ormai continua a ripetere, che servono riforme coraggiose per imprese e famiglie,Per imprese e famiglie servono riforme coraggiose, denuncia la difficoltà della crescita, che si protrae ormai da quindici anni; richiama l'attenzione, anzi, solleva l'allarme dei giovani, che sono "mortificati dai salari di ingresso nel mercato del lavoro, sotto i livelli degli anni'80 e che vivono un perverso mix di poca flessibilità e molta precarietà; che servono 'riforme coraggiose' per sostenere le famiglie e le imprese". Dall'altra il presidente dell'Eurispes, Gian Maria Fara,  che è un problema insormontabile per il 35,1% delle famiglie italiane arrivare a fine mese (nel 2010 erano il 28,6%); per due italiani su cinque sono insostenibili i mutui e gli affitti e il 40% delle famiglie ha difficoltà a pagare rate e canoni, per il 35%famiglie insormontabile arrivare a fine mese
Se a ciò ci aggiungiamo il problema dei lavoratori "Somministrati ILVA", somministrati ILVA, che ancora attendono il rispetto del contratto firmato il 9 dicembre  2010. Ad oggi nessun somministrato è stato assunto, come da accordo, non solo, non percepiscono il salario da molti mesi. Questo è un esempio fra tanti altri, ma l'abbiamo scelto per la sua posizione geografica, perché è la stessa di Termini Imerese.
Tutto questo per presentare una rapida, sintetica e drammatica situazione, che non ha bisogno di falsi spot elettorali o paraelettorali; che non ha bisogno di politici illusionisti, ma ha un disperato bisogno di concretezze. 
Infine, stando al comunicato Istat, per il terzo mese consecutivo il tasso di disoccupazione in Italia si attesta all'8,6% (+ 0,2%) su base annua; la disoccupazione giovanile raggiunge un nuovo record, il 29,4%, che è il più alto dal 2004. Considerato che fino a ieri il Governo si autodefiniva del "fare", ci preme evidenziare che il tasso di occupazione è pari al 56,7% ( - 0,2 punti su dicembre e - 0,4 punti su gennaio 2010) e per fortuna la crisi è passata! Anzi, per il Governo la ripresa si avvertiva, disoccupazione all'8,6%. Se nell'area euro si avverte un lieve calo della disoccupazione, in Germania le cose vanno decisamente meglio, visto che il tasso di disoccupazione è sceso al 7,3%, ai minimi dal 1992. Saremmo veramente felici, una volta tanto, essere fra i primi! Ma in senso positivo.
Noi la seguiremo Ministro, passo dopo passo, ricorderemo e riproporremo sempre le sue parole: "Oggi si apre una nuova fase per Termini Imerese. Siamo partiti da un grande problema occupazionale e abbiamo lavorato con determinazione per creare le condizioni necessarie al rilancio di uno dei più importanti insediamenti produttivi del Mezzogiorno [...] E' un segnale importante della vitalità del tessuto economico italiano e della capacità del governo Berlusconi di mettere a sistema le migliori forze del paese". Ben volentieri vorremmo scrivere e lo faremo, che, finalmente, un progetto è andato a buon fine.
Concludiamo con due osservazioni: la prima, se c'è questa capacità di fare sistema, perché non è un progetto o una strategia costante del suo ministero da applicare anche ad altri ambiti? La seconda, rubandola al prof. Gallino, e aggiungendo del nostro "A volte viene da chiedersi se i funzionari e i parlamentari che materialmente redigono le leggi, (o fanno proclami), provino mai a simulare le conseguenze sulle persone di questo o di quel dispositivo normativo (o delle promesse fatte e non mantenute)".

martedì 1 marzo 2011

NOI SIAMO PER UNA SCUOLA DI QUALITA' E PUBBLICA

Come scrive Concita De Gregorio:"è paradossale e inaccettabile che un presidente del Consiglio, chiamato a incarnare e tutelare la cosa pubblica, attacchi frontalmente la scuola pubblica statale, conquista democratica, e quindi milioni di persone, docenti, operatori, ma, soprattutto studenti, che in questa credono e alla quale quotidianamente dedicano, in condizioni spesso molto difficili, la loro personale fatica".
Per chi ci legge, consigliamo la lettura dei due link allegati ed estratti da lavoce.infola qualità della scuola pubblica e di quella privata, che riporta i grafici estratti da un'indagine internazionale promossa dalla  Ocse, nata allo scopo di valutare con periodicità triennale il livello di competenze dei quindicenni dei principali paesi industrializzati, che, sembrerebbe smentire le preferenze del nostro Presidente del Consiglio;  a seguire, quando l'uguaglianza non va a scuola, che riguarda un'analisi dei test di ingresso alla facoltà di economia dell'università di Torino, che evidenzia come i risultati degli studenti varino in funzione del tipo di scuola di provenienza: liceo o istituto tecnico oppure scuola pubblica o privata.
Che la scuola vada riformata non ci sono dubbi.  Si dovranno rivedere i programmi, più consoni alle esigenze attuali; creare dei sistemi di monitoraggio della qualità sia a livello verticale, all'interno di ogni singola scuola, che orizzontale, esteso sul territorio, ovviando alle attuali differenze qualitative fra il Centro-Nord e il Sud. Ciò permetterebbe una più facile frequentazione anche a chi non può sostenere costi di trasporto o di mantenimento a scuole migliori, ma lontane dalla propria abitazione. La scuola deve guardare al mondo, ma anche al comune, alla provincia e alla regione che hanno bisogno di eccellenze, specie al Sud, dove potrebbero risolvere i tanti problemi che oggi lo affliggono. E' utilizzando le"menti" create che si creano le condizioni di sviluppo necessarie, e con ciò facendo rimando ad un post precedente LA SCUOLA E L'INDUSTRIA.
Non si può chiedere ai professori e ai docenti di aggiornarsi continuamente se non riusciamo a dargli un minimo di garanzie di lavoro; ci chiediamo come sia possibile chiedere qualità a chi sa che potrebbe insegnare solo qualche mese e poi ritrovarsi  a dover cercare altre soluzioni. La qualità non si può chiedere ad una "vita in corsa", ma necessità di concentrazione e dedizione. E' solo a queste condizioni che è giusto, anzi, obbligatorio che ci siano delle valutazioni del livello qualitativo, omogenee a livello nazionale, come avviene in Inghilterra. Saranno le famiglie a decretare la qualità delle singole scuole, scegliendole o meno; saranno i parametri definiti a tale funzione a richiamare le scuole meno virtuose ad allinearsi agli standard definiti, ma tutto ciò, in pubblica scuola.