giovedì 24 marzo 2011

SE IL LAVORO E' IL FUTURO, DIAMOCI UNA MOSSA.

Sul Sole 24 ore di ieri c'era un'intervista ad Anna Maria Artoni, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, e' il lavoro il nodo del futuro, nella quale fa una disamina dell'andamento del lavoro nelle regioni di sua pertinenza: si evidenzia una leggera, ma sofferta crescita, sulla quale incombono come macigni le debolezze del sistema Italia e le incertezze internazionali, si veda il Giappone e la Libia. Ciò che salva quelle regioni è l'export che ha creato un clima di fiducia fra le imprese industriali, che si aspettano un a prima parte del 2011 in positivo. Ciò che maggiormente incide sulla frenata della crescita, tanto che è ipotizzabile prevedere un aumento del tasso di disoccupazione, da un 5,8% ad un 6,5%, è dato dai consumi interni che non ripartono e dai tassi di crescita, + 1% il Pil previsto per fine 2011, che sono troppo bassi affinché l'occupazione torni ai livelli precedenti la crisi. 
Sempre ieri, su La Stampa, proposta fiom inaccettabile, si leggeva che la Fiat, per investire i 500 milioni di euro per produrre un modello Maserati nella ex Carrozzeria Bertone, vuole che si applichi il contratto già previsto per Mirafiori. Naturalmente la Fiom ha detto di no e gli altri sindacati, invece, sono d'accordo. Quindi, come previsto, il confronto è in una fase di stallo. Noi non siamo paladini del sistema Marchionne, anzi, già in post precedenti abbiamo espresso il nostro pensiero, certo non lusinghiero, ma oggi è necessario che Fiom faccia le dovute riflessioni.  Non vuol dire cedere, ma, al limite, stabilire dei tempi di verifica, coinvolgendo tutte le parti sociali: darsi un periodo di tre/cinque anni per valutare la messa in atto dei piani aziendali della Fiat, con la garanzia di rivalutare le posizioni allo scadere della data stabilita, cercando di ottenere modalità di controllo, concordate a garantire il buon funzionamento degli accordi presi. Oggi c'è necessità di lavoro, ma, soprattutto, c'è necessità di ridare stabilità e sicurezza alle famiglie in modo che possano vivere una vita dignitosa. Dobbiamo assolutamente ricreare le basi per tornare a sperare nel futuro e togliere quella cappa di incertezza che diventa ogni giorno sempre più pesante.
Vogliamo terminare con il caso Parmalat e cioè la scalata francese al nostro colosso del latte. Naturalmente il governo è corso ai ripari adottando politiche protezionistiche, come d'altronde hanno fatto anche Francia e Germania in alcuni casi. Si è parlato dell'Italia come un paese di facile colonizzazione da parte degli stranieri e questo non è assolutamente possibile, visto che non ci sono le condizioni di mercato così allettanti da attrarre gli investitori stranieri. Ma vediamo da vicino, e grazie ad uno studio a quale ha contribuito anche Fabiano  Schivardi, la scorciatoia dell'italianità, se sia veramente un errore, un pericolo o un rischio permettere agli stranieri di investire nelle nostre aziende. Necessita premettere che sarebbe estremamente urgente e doveroso, a livello europeo, stabilire un insieme di regole chiare, condivise e rispettate, nelle quali  si definiscano le modalità di partecipazione, l'entità ecc, e che la reciprocità di trattamento fosse uniforme. E' altresì importante evidenziare che la quota di aziende sotto il controllo estero, con almeno il 50% del capitale posseduto da azionisti stranieri, è, in Italia, la più bassa dei sette paesi oggetto di studio (Francia, Germania, UK, Austria, Ungheria,Spagna e Italia): in Italia è il 4,1%; in Francia il 10,3% e in UK è il 12,2/%. Queste percentuali evidenziano, semmai, che l'Italia non attrae investimenti dall'estero.  Lasciamo ai più volenterosi di leggersi l'intera ricerca, per concentrarsi su alcuni punti importanti e che si ricollegano alle due letture precedenti, in modo da dare un senso al titolo di questo scritto.
Innanzi tutto, le imprese a controllo straniero in tutti i paesi hanno tassi di internazionalizzazione più elevati; il rischio che gli investitori stranieri si approprino dei marchi e della tecnologia , per poi smantellare la produzione o che siano meno vincolati nel salvaguardare l'occupazione, rispetto a quelli nazionali, è piuttosto superficiale e basterebbe vedere ciò che è successo a delle aziende che lavoravano come terzisti per la Ducati e che sono state vendute ad un euro e non certo a investitori stranieri. In quel caso sono italiani e della peggior specie. Anche imprenditori nazionali sarebbero meno inclini a mantenere l'occupazione se non vi sono le condizioni necessarie. Come scrive  Schivardi "Occuparsi della nazionalità del controllante invece che delle condizioni in cui le imprese operano è una strategia che può pagare politicamente nell'immediato, ma perdente nel medio periodo. Operazioni 'di bandiera' sono inutili nel migliore dei casi, come per l'annunciata riforma costituzionale per la libertà d'impresa, dannose negli altri, come nella vicenda Alitalia".
La grande quantità di imprese italiane sono sottocapitalizzate e si affidano quasi unicamente al credito bancario e un'indagine della Banca d'Italia , 2006, evidenzia che molte imprese rinunciano alla crescita per non aprirsi al capitale di rischio esterno.
Il dubbio, sempre seguendo Schivardi, è che la protezione delle imprese dalle scalate non solo danneggia l'economia, ma sembra far comodo a gruppi di potere o ai " 'capitalisti senza capitali', che attraverso catene di controllo, patti di sindacato e banche di sistema controllano le imprese con lo zero virgola del capitale di rischio".  Piace a certi manager, che si muovono da un consiglio di amministrazione e l'altro, senza preoccuparsi più di tanto della performance delle aziende gestite, anche grazie alle loro inossidabili relazioni. Soprattutto " fa comodo a un potere politico che preferisce un interlocutore imprenditoriale nazionale, possibilmente debole e sensibile alle istanze della politica".
Ora, se il nocciolo del futuro è il lavoro è necessario che le persone si rendano conto che è urgente cambiare certe regole e che, soprattutto, si riapproprino del loro tempo e della loro vita. Le scelte dovranno riguardare la politica, il sindacato, le imprese e i lavoratori, ma tutti, indistintamente, tutti insieme dovremo darci una mossa. Altrimenti prevedere il futuro del lavoro in Italia è molto facile.

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