domenica 30 gennaio 2011

La busta paga

Molto spesso, mentre scrivo di lavoro, mi viene in mente quanto fosse diverso quando ero giovane, in termini di rapporti, sicurezza, tecnologia e aspettative; ma una cosa non è cambiata con la situazione attuale: il problema dei giovani. Prima, la loro turbolenza e le loro richieste andavano verso la direzione del miglioramento di vita, oggi il problema è assai più grave: quale futuro?

LO SPIRITO DELLA TOYOTA

Si parla di Qualità totale, just-in-time, produzione snella, del sistema giapponese di produzione, quasi fosse il rimedio a tutti i mali che affliggono l'occidente, per cui vediamo da vicino questo nuovo modo di produrre. Per fare questo ci avvaliamo del testo di Taiichi Ohno, Lo spirito della Toyota,  seguendo con attenzione l'introduzione che  Marco Revelli ha fatto in questo famoso testo.

Scrive Taiichi Ohno:"L'idea base del sistema Toyota è raggiungere l'eliminazione totale degli sprechi. I due pilastri su cui  si posa questa idea sono il just-in-time e l'autoattivazione della produzione". Il just-in-time è il principio organizzativo in base al quale ogni fase lavorativa deve essere alimentata "nel preciso momento in cui ce n'è bisogno e solo nella quantità necessaria" con ciò rendendo superflua l'esistenza dei magazzini, eliminando lo stoccaggio. L'autonomazione o autoattivazione costituisce, di fatto, un nuovo modo di gestire le macchine e, soprattutto, un nuovo rapporto uomo-macchina: per quanto riguarda la prima, si ritiene importante che le macchine abbiano sistemi di controllo delle difettosità, più che l'eccessiva velocità, e che blocchino la produzione nell'istante stesso in cui una difettosità viene rilevata, conferendo alla macchina "un tocco di sensibilità umana"; per quanto concerne la seconda, si richiede una maggiore "responsabilizzazione degli operai" per ovviare a"due gravi problemi tipici della produzione di massa: [...] non arrestare mai la catena di montaggio, neppure in presenza di errori di lavorazione evidenti [...] e rinunciando, in questo modo, a eliminare le cause della difettosità" e di concedere ad un "macchinario predisposto per produrre una serie ampia di pezzi di moltiplicare all'infinito i difetti una volta che questi si siano prodotti, perché incapaci di bloccarli alla fonte".

Marco Revelli, nell'introduzione del libro, si chiede in quale misura il sistema Toyota rappresenti un'effettiva "rivoluzione produttiva, rispetto al precedente modello fordista-taylorista, e in quale misura, invece, ne costituisca un semplice adeguamento alle mutate condizioni di mercato". E' necessario tenere conto, tra l'altro, anche delle "favorevoli condizioni politico-ambientali ( un lavoratore giapponese lavora in media 500 ore in più all'anno rispetto a uno europeo e 250 ore rispetto a uno americano)", oltre ad altri fattori che vedremo di seguito, attraverso alcuni autori.

Nel saggio, Penser à l'envers, Benjamin Coriat ritiene che "il complesso delle innovazioni organizzative" della Toyota sono trasferibili e applicabili in "spazi socio-economici differenti da quelli nei quali e per i quali era stato concepito", considerando il testo di Ohno di una "qualità e importanza [...] da tutti i punti di vista" al libro di Taylor, La direzione scientifica delle imprese, coniando addirittura il termine "ohnismo" in simmetria e in opposizione al superato termine taylorismo, costituendone, nel contempo, "una rottura radicale".

Ci sono, però, autori come Dohse, Jurgens e Malsch che non condividono le stesse entusiastiche visioni, vedendo nel sistema Toyota "la sostanziale continuità tra ohnismo e fordismo e una sostanziale radicalizzazione [...] del modello organizzativo taylorista: una sorta di super-fordismo [...] la pratica di principi organizzativo del fordismo in una condizione di prerogative manageriali illimitate". Oppure, come l'inglese S.Wood, che vede, attraverso "l'assoluta possibilità di sorveglianza, controllo e responsabilizzazione della forza lavoro da parte del comando d'impresa [...] l'essenza del nuovo modello produttivo: un vero e proprio Panopticon di fabbrica, il quale non farebbe che esasperare il progetto taylorista di riduzione dell'opacità operaia e di realizzazione di una piena visibilità del processo lavorativo".

Nel suo testo, Ohno richiama spesso gli scritti di Ford e ne esalta alcune preveggenze, addebitando ai suoi successori di non aver capito i suggerimenti e le visioni di un nuovo modo di produrre. Ci riferiamo in particolar modo alla concezione fordiana della "fabbrica sincronica", dove tutte le parti del processo lavorativo dovevano essere perfettamente sincronizzate e che solo per ragioni contingenti non è stata realizzata e cioè i mezzi tecnici del tempo permettevano un pieno sincronismo solo per produzioni molto uniformi e non per cicli lavorativi più articolati. Inoltre, in quel periodo la General Motors aveva concepito la realizzazione di modelli diversificati, per categorie di acquirenti diverse, puntando sulla presentazione di modelli nuovi alla fine di ogni anno. Ciò aveva tolto alle imprese la "perfetta linearità" della produzione di massa, tipica del modello "T", creando un ciclo produttivo in cui si alternavano momenti di alta produzione a fasi di rallentamento, progettazione e ripartenze.

E' in questa fase che il sistema Toyota, con la propria organizzazione produttiva ha potuto raggiungere il pieno successo. Da una parte c'era un'azienda estremamente rigida e dall'altra un'azienda che era riuscita a diversificarsi in termini di modelli, ma la produzione era ancora legata ad una gestione delle scorte in termini di produzione di massa. La produzione just-in-time e l'elasticità dovuta al nuovo sistema produttivo rispondevano meglio alle esigenze del mercato in quanto era "più adattabile alle esigenze dei singoli momenti". E' per ciò che il modello proposto da Ohno può "a buona ragione essere definito come una sorta di fordismo oltr eFord", perché è andato oltre, perfezionandolo, il sogno di Ford della fabbrica sincronica. Stessa cosa si può dire rispetto a Taylor : "il mito dell'one best way" aveva come scopo che l'operaio desse il massimo "della propria capacità produttiva, senza sprechi, né sacche di inefficienza". Ohno si è spostato dall'uomo all'organizzazione dell'intera impresa: "egli tratta l'organizzazione esattamente come Taylor trattava gli uomini", il quanto "il sistema di produzione Toyota è basato fondamentalmente sull'eliminazione totale delle disfunzioni e degli sprechi". Come rileva Revelli "prima che un metodo produttivo [...] è uno strumento di controllo gestionale diretto a rendere 'trasparente' il sistema di fabbrica". E ciò non nega la concezione taylorista, che con il suo cronometrista voleva rendere 'trasparente' il lavoro dell'operaio, anzi, la supera se non la 'radicalizza'. Se vogliamo trovare una differenza è che Ohno non dà alla sua teoria il valore di scienza, come fa Taylor, ma ritiene importante che la stessa sia continuamente migliorata, secondo il "principio del concetto orientale di kaizen". E' attraverso questo continuo miglioramento che si devono migliorare le inefficienze e gli sprechi, ma anche gravando "in misura crescente [...] sulla forza-lavoro, per la quale comporta da una parte una costante riduzione ( la fabbrica snella è una fabbrica con pochi operai), dall'altra un crescente grado di coinvolgimento e di controllo", tanto che il toyotismo è stato definito "un sistema che cerca di strizzare acqua da un asciugamano asciutto".

Indubbiamente vi sono anche elementi di discontinuità dal sistema taylor-fordista, come quello che riguarda il rapporto con il mercato. La filosofia produttiva fordista ragionava in termini di "illimitatezza del mercato, di indefinita estendibilità della domanda", per cui era concepibile un sistema produttivo di massa. Il sistema Toyota, invece, "costituisce in condizioni di 'mercato finito' [...] è caratterizzato dalla consapevolezza del 'limite': della necessità di produrre quote sempre minori di prodotti sempre più differenziati al loro interno, per un mercato sempre più esigente e differenziato". Infatti scrive Ohno " Il sistema Toyota è un sistema produttivo concepito per condizioni di crescita lenta o nulla". Ciò implica che i produttori dovranno " ridurre i costi senza aumentare nel contempo la scala produttiva, anzi, riducendola e differenziandola [...] La fabbrica dovrà imparare a vibrare con il mercato, a seguirne ogni minima increspatura, ogni repentino mutamento d'umore [...] Dovrà attrezzarsi per una pratica occasionalistica, misurata sul tempo breve e brevissimo, capace di mutare istant eper istante l'organizzazione del lavoro, l'organico delle squadre, la disposizione delle macchine a seconda dei volumi produttivi e del tipo di merce richiesta".

A tal fine sono importanti due osservazioni di Shigeo Shingo, che centrano in modo chiaro le due filosofie produttive: che la Toyota "fabbrica prodotti che sono già venduti" mentre le fabbriche a produzione di massa "fabbricano prodotti che eventualmente è possibile vendere"; mentre nelle fabbriche tradizionali il prezzo di vendita è dato dalla somma dei costi e l'utile desiderato, alla Toyota è "l'utile ad essere determinato sottraendo dal prezzo di vendita i costi". In pratica è il cliente che stabilisce il prezzo in funzione delle sue preferenze e cioè "il mercato fissa il prezzo di vendita, cioè la scelta del consumatore decide il prezzo". 

Ma la vera anima del sistema Toyota è nel sistema di comunicazioni interne - nella tecnica del kanban e nelle procedure che determinano i volumi produttivi giornalieri. Nelle fabbriche a produzione di massa, il flusso di comunicazione andava dal centro, a cui spettava stabilire i volumi di produzione e i tempi di realizzo di ogni reparto, per poi estendersi, da monte a valle, verso tutti i cicli lavorativi. Nel sistema Toyota è esattamente il contrario e cioè da valle a monte. In pratica dal mercato arrivano le richieste, a fronte delle quali il montaggio richiede alle stazioni precedenti i materiali necessari, istante per istante, per far fronte alla richiesta. Ciò non è solo una modifica di comunicazione interna o alimentazione delle linee di produzione, ma viene posto in "discussione e rovesciato l'intero sistema di razionalità sinottico-burocratica del modello fordista, incentrato sull'egemonia della fabbrica sull'insieme dei rapporti sociali".


Altro elemento di discontinuità con il taylor-fordismo " riguarda il rapporto con la forza-lavoro. La concezione della fabbrica come 'ambiente sociale'. Qui il confronto è con il taylorismo. Pe Taylor "la scienza del lavoro" doveva servire a vincere la "naturale pigrizia operaia; a restituire al padrone la conoscenza del processo lavorativo, sfondando il monopolio della conoscenza del mestiere detenuto dai lavoratori". La fabbrica tayloristica, scrive Revelli "era una struttura produttiva feroce, dispotica, aggressiva: perché [...] dualistica [...] Fondata sull'idea di una separazione e di una strutturale contrapposizione tra i principali soggetti produttivi. Essa incorporava, nella sua stessa 'costituzione', il conflitto. Il rapporto di forza. Per superarlo, certo: per dissolverlo nell'universalità oggettiva della scienza. Ma non senza residui: l'alterità operaia dentro il sistema di macchine è rimasta, fino alla fine, il principio occulto del taylorismo. Così come l'atto produttivo ha continuato a vivere, nella filosofia tayloristica, come il risultato di un confronto sociale conflittuale: l'esito di una 'lotta'".


Il sistema Toyota, invece, prevede "una comunità di fabbrica unificata e omologata" in cui il lavoratore polivalente deve adoperare la sua intelligenza nel processo lavorativo, attraverso funzioni esecutive, di controllo e progettazione; dove ha la funzione di segnalare difetti al momento stesso della nascita e dove è richiesta la partecipazione alla ristrutturazione del processo lavorativo in funzione delle variazioni delle richieste del mercato. Scrive Revelli "Se la fabbrica tayloristica si fondava sul 'dispotismo' questa aspira all'egemonia'. Se quella usava la 'costrizione' questa gioca sull'appartenenza'. Qui si tratta di "sussumere al capitale la dimensione esistenziale stessa della forza-lavoro [...] di fare dell'appartenenza all'impresa l'unica soggettività possibile". Se il taylorismo riteneva un "disturbo" la capacità intellettuale dell'operaio, qui viene trattato come una "risorsa"; se per il taylorismo era rigorosa la divisione fra l'ideazione e l'esecuzione, nella fabbrica integrata "diventa 'diritto-dovere' del lavoratore partecipante: condizione di accesso a quella 'cittadinanza di fabbrica' che, nel modello giapponese, appare più forte e qualificante della 'cittadinanza politica' stessa". D'altronde come sarebbe possibile poter essere pronti a "modificarsi a ogni increspatura sulla superficie inquieta della domanda" se non attraverso una forza-lavoro attiva? Ed è per questo che occorre stimolarla all'"autoattivazione, coinvolgerla nella realizzazione delle politiche aziendali, politicizzare aziendalmente il lavoro direttamente produttivo. Occorre[...] esercitare 'egemonia' sull'antico avversario di 'classe'".


In Italia il modello produttivo giapponese arrivò tardi, agli inizi degli anni '90 del secolo scorso e il dibattito che sollevò fu molto superficiale e fu a seguito dell'intervento di Cesare Romiti alla convention di Marentino dell'ottobre del 1989, che si cominciò a valutare l'opportunità di inserire tale sistema nel nostro paese. Da parte manageriale ci si concentrò sulla 'Qualità totale', che poi si ridusse solo ad una serie di tecniche, di 'strumenti operativi', trascurandone la 'filosofia produttiva' e tenendo per buoni singoli aspetti direttamente applicabili a specifici aspetti della realtà aziendale. Dal lato sindacale si sono colti solo gli aspetti "partecipativi, gli elementi di rivalorizzazione del lavoro, il superamento della tayloristica separazione tra ideazione ed esecuzione, e ipotizzando improbabili rilanci cogestionali".


Quello che è stato ignorato sono gli aspetti 'ambientali' del modello giapponese e i suoi 'pre-requisiti politico-sociali', che ne sono la sua 'stabilità ed efficacia e da cui dipende in larga misura la sua struttura. Vediamo innanzi tutto il mercato del lavoro.


Esso, come sottolinea Revelli, "fortemente segmentato in settori di forza lavoro nettamente separati [...] esplicitamente 'organizzato' dal potere delle imprese [...] Sono le grandi imprese che 'gestiscono' [...] l'intera vita sociale del settore centrale di forza lavoro [...] il cosiddetto ' mercato della lealtà' [...] e a cui la 'fedelta' ' richiesta è compensata con un elevato grado di sicurezza. A costoro è garantito 'l'impiego a vita' [...] un percorso di carriera certo e predeterminato e prestazioni assistenziali fornite direttamente dall'impresa". Questa fascia di lavoratori privilegiati sono un terzo del totale. Quindi c'è il 'secondo mercato' "più marginale e meno garantito", normalmente utilizzati nelle piccole imprese e molto fluttuante, senza considerare che sono soggetti a "cedere il posto se una grande impresa, in posizione di controllo sulla minore, chiede a questa di 'prendere in prestito' i propri dipendenti in una fase di recessione".Questo segmento, che vede la prevalenza di donne, rappresenta un altro 30 per cento del totale delle forze lavoro. Infine c'è un terzo livello, quello chiamato " 'mercato mercenario' [...] privo di garanzia e stabilità. Massa di manovra da impiegare [...] quando il mercato tira, e da espellere quando la domanda cala". Ed anche questo segmento rappresenta un ulteriore 30 per cento sul totale.


Per quanto concerne il salario, il discorso è analogo al mercato del lavoro. E' fortemente differenziato e legato "ad una gerarchia di status basata, più che sulla funzione o sul ruolo produttivo, sulla 'fedeltà' [...] è fortemente legato all'anzianità e alla carriera pregressa". Si pensi che ad ogni primavera "ognuno viene valutato dal proprio superiore diretto, e ottiene una variazione di salario oscillante entro una fascia che va da +15 a -15 per cento sulla base di determinati criteri (assenteismo, grado di collaborazione, idee per migliorare il prodotto, disciplina ecc)". Inoltre è da evidenziare che solo un terzo dello stipendio è costituito dalla paga base e il resto è dato dai premi di produzione e dallo straordinario.


Per quanto riguarda il sindacato, è da evidenziare che è "rigorosamente aziendale. L'iscrizione obbligatoria per gli operai del primo livello (il mercato della lealtà). Gli altri ne sono esclusi. Tra i suoi quadri vengono reclutati i dirigenti dell'impresa". E' intuibile il motivo per cui molti autori ritengono il sistema Toyota sia applicabile esclusivamente in un "ambiente sociale 'sterilizzato' da ogni soggettività antagonistica" ed è ancora più comprensibile come possa essere difficile la sua totale applicazione nei paesi europei "fortemente segnati dall'esperienza del movimento operaio e da forme di rappresentanza del lavoro consolidate".


Il sistema produttivo giapponese non è importabile così com'è, ma, cogliendone l'aspetto centrale della filosofia, specialmente ciò che riguarda la continua ottimizzazione del processo produttivo, non tanto incentrato sulla continua e pressante necessità di investire in macchinari, ma nell'ottimizzazione della gestione, con ciò a riguardo del personale, delle macchine, delle procedure, della partecipazione dei lavoratori, nella continua ricerca dei difetti, della qualità ecc. può essere un buon stimolo. Sotto l'aspetto della qualità, della valorizzazione del lavoro 'attivo', della produttività e della partecipazione alla produzione ci sarebbero dei miglioramenti, ma non è certo da aspettarsi un incremento dei posti di lavoro. Con 'l'eliminazione costante degli sprechi' uno degli obiettivi è lo spreco 'mano d'opera', per cui le imprese otterrebbero maggiore produttività con lo stesso personale o anche in quantità minore. Quindi è plausibile pensare che l'incremento dei posti di lavoro è possibile ottenerlo solo con nuovi lavori. Se ciò non fosse, il pericolo incombente è una sempre più accentuata segmentazione del mercato del lavoro, per non parlare della maggiore disoccupazione. L'unico possibile vantaggio si potrebbe riscontrare nel fatto che si potrebbe ridurre il turn-over  della forza lavoro, in quanto, una volta specializzata, sarà più difficile per gli imprenditori disfarsene nei momenti di difficoltà, rischiando di non poterci far conto nei momenti in cui il mercato tira. 


Certo non è la soluzione, forse è solo una delle possibili soluzioni, ma, sicuramente, potrebbe essere la strada per raggiungere una reale qualità, che non è data dal sistema di Qualità totale adottato e tanto decantato, che poco si distanzia dalla scienza tayloristica. 

sabato 29 gennaio 2011

PARTECIPAZIONE E COOPERAZIONE

A chi lavora oggi si chiede di dare un prodotto o un servizio di qualità, elementi fondamentali dei quali nessuna azienda può farne a meno, ma ciò implica che all'interno delle fabbriche sia assente il conflitto e massima la cooperazione. Infatti Aris Accornero, in Era il secolo del lavoro, scrive: "Del resto, quale azienda potrebbe mai promettere la qualità totale ai propri clienti, rinunciando impunemente all'intelligenza dei propri lavoratori. la qualità totale non rende possibile una nuova qualità del lavoro, ma rende necessarie nuove relazioni del lavoro".

Con la qualità i lavoratori si impossessano di nuovo dei contenuti del lavoro e il processo lavorativo, scrive Accornero "sta insomma descrivendo una traiettoria storica che dall'esecuzione rigorosa porta alla cooperazione intelligente".  Si pensi che che già a metà degli anni '30 del secolo scorso scriveva Simone Weil nelle sue lettere, tratte dalla Condizione operaia: "Per quanto riguarda le fabbriche, la questione che mi pongo, completamente indipendente dal regime politico, è quella di un passaggio progressivo dalla subordinazione totale ad una certa mescolanza di subordinazione e di collaborazione, l'ideale essendo la cooperazione pura".

Dai tempi della Weil qualcosa è stato fatto, se pur in modo contradditorio, ma siamo ancora agli inizi della salita che, per quanto ripida, è l'unica strada perseguibile. Fondamentale è considerare l'impresa, come ricorda Accornero, "una comunità non più basata sulla fedeltà e sulla deferenza, come in passato, ma al bisogno di infondere e di esaltare il contenuto etico del lavoro".

Poco varrebbe parlare di partecipazione, coinvolgimento, qualità totale, se la maggior flessibilità richiesta fosse la causa della perdita di lavoro. Le imprese dovranno tenere conto che è difficile chiedere la qualità ad un lavoratore saltuario o a lavoratori che sentono la loro sicurezza minacciata invece che rafforzata; soprattutto, dovranno metabolizzare che una mano d'opera eccellente e partecipante è un investimento per il futuro, per cui la partecipazione la dovranno ritenere un qualcosa di assolutamente utile e necessario. Certo, le difficoltà saranno sempre alla porta, visti gli interessi differenti dei partecipanti, ma ognuno, per la sua parte, dovrà lavorare per costruire nuovi rapporti sistematici basati sulla reciproca fiducia e gestiti da un minimo di regolamentazione contrattuale e legislativa, perché, come scrive Accornero: "La cooperazione intelligente necessita di un presupposto non rinunciabile: una relativa sicurezza del lavoro, una relativa stabilità del posto [...] Chi obiettasse: come si fa a parlare di sicurezza e di stabilità del lavoro, in tempi di competizione globale, farebbe meglio a chiedersi: come si fa a parlare di qualità del lavoro con lo spauracchio del licenziamento?".

La partecipazione ha la finalità di correggere l'intrinseca asimmetria del rapporto di lavoro salariato. I due modelli che ci interessano sono: la partecipazione collaborativa e quella integrativa congiuntamente. Vediamo con il testo di Guido Baglioni, Democrazia impossibile, di capire i due aspetti della questione.

Se la partecipazione collaborativa "contempla la possibilità di miglioramenti della posizione socioeconomica e la correzione della asimmetria [...] senza modificare la ragione sociale dell'impresa", quella partecipativa "propone di interessare i dipendenti all'andamento dell'impresa e/o coinvolgerli nelle sue vicende e nel suo destino". Quindi la prima dovrà stabilire poche, significative e trasparenti regole generali da rispettare ( democrazia industriale), attraverso le quali impostare una partecipazione economica, culturale e organizzativa.

La partecipazione economica può espletarsi o attraverso una quota retributiva variabile in aggiunta al salario fisso, valutata in funzione dei risultati dell'azienda (profit sharing) oppure dare l'accesso ai lavoratori alle quote azionarie del capitale (employee ownership). Soluzione, quest'ultima, che spesso è stata usata come "deterrente contro il sindacato", oltre al fatto che necessiterebbe di un mutato assetto politico-economico. Se, come dice Baglioni, "è evidente che rispetto alla democrazia industriale, la democrazia economica, sia pure con la presenza sindacale, non è finalizzata alla costituzione di organismi formalizzati deputati a definire le condizioni di lavoro e, tanto meno, le decisioni dell'impresa", allora la soluzione del profit sharing è più significativa e rilevante rispetto all'altra: sia sotto l'aspetto delle relazioni industriali, che  le finalità motivazionali, senza escludere che "mette a disposizione un bene" e di conseguenza "può prevedibilmente incontrare il consenso e suscitare aspettative nei soggetti coinvolti".

Con la partecipazione collaborativa si deve costruire l'impalcatura gestionale e con la partecipazione integrativa, sia economica che culturale-organizzativa, il contesto operativo, per cui è evidente che la presenza dei sindacati è importante, altrimenti nessuno sarebbe disposto ad assumere il rischio di una quota di salario dipendente dall'andamento dell'azienda, senza avere la possibilità di partecipare alle strategie e decisioni aziendali e alla verifica dell'applicabilità della partecipazione agli utili. Tale impostazione partecipativa ha, come conseguenza, che sia obbligatorio il coinvolgimento di tute le maestranze, per cui, a ogni livello del ciclo produttivo, tutti sono coinvolti in un progetto di comune interesse. Ed è in quest'ottica che non vediamo scisse le due direzioni della partecipazione integrativa: economica e culturale-organizzativa. In caso contrario si parla di cose diverse dalla partecipazione.

Quello di cui parliamo e del quale le aziende dovrebbero far tesoro, è una partecipazione attiva alla vita dell'azienda. Una partecipazione che assume una dose di rischio consapevole, ma supportato da una partecipazione alle scelte, alle strategie, alle politiche da adottare all'interno e all'esterno dell'azienda. Ed è per questo che è significativa la presenza del sindacato o delle sue rappresentanze, per la tutela dei meno istruiti e preparati in ambito amministrativo, commerciale e gestionale. Per Sidney P.Rubinstein, il sindacato, con il management e il personale tecnico, costituisce uno dei poli istituzionali dell'impresa. Infatti, per questo autore, i sistemi aziendali tendono a diventare instabili se si realizza la democrazia partecipativa ( circoli di qualità) senza la democrazia rappresentativa (sindacato).

Quando parliamo della Qualità totale, dei circoli della qualità, del just-in-time o produzione snella ci rifacciamo sempre al 'sistema Giappone', portandoci dietro le divergenze di chi è favorevole o meno a tale sistema. I giapponesi hanno avuto l'intelligenza e la capacità di adattare alle proprie esigenze un diverso modo di produrre e di concepire l'azienda, applicando teorie di studiosi occidentali, ma non per questo i deve copiare il loro sistema e trasportarlo integralmente in occidente, ma adattarlo alle nostre esigenze e alla nostra cultura. Cò che è realmente importante è il concetto di "comunità" che Ronald Dore ha dell'impresa, come scrive Baglioni "che mostra una superiorità (rispetto alla tradizionale) in termini di innovazione, competitività e grado di soddisfazione di chi in essa opera" oltre al fatto che essa " si presenta come luogo di tutti coloro che in essa lavorano, gli azionisti appaiono come un gruppo di soggetti esterni, il senso di appartenenza spinge tutte le componenti interne a rendere l'impresa più prospera, la dirigenza deve avere un'ampia e riconosciuta legittimazione professionale e morale".

Oggi l'impresa ha necessità di contenere i costi, di ridurre le scorte, di adattarsi alle mutevolezze del mercato, di avere una buona qualità ad una elevata produttività, per cui la flessibilità sarà una necessità anche per gli anni a venire ed è importante che in ogni azienda esista un "gruppo di lavoratori partecipanti" e non un "nucleo di lavoratori di élite e tanti periferici". Certamente il lavoro flessibile implica "mansioni più allargate e maggiori responsabilità, quindi maggiore pressione, ed insieme una pressione culturale, volta ad ottenere la piena disponibilità", ma all'operaio 'bue' di Taylor è preferibile l'operaio professionalizzato d oggi, e all'operaio della catena di montaggio di Ford è preferibile l'operaio della linea di produzione della Ferrero. Se è pur vero, come afferma Bonazzi, che "il lavoro è divenuto più responsabile ma più diligente, più di gruppo ma più controllabile, meno burocratico ma non meno vincolante sul piano dei rapporti umani", è anche vero che ciò è indispensabile per il buon funzionamento della struttura produttiva. Ma se ci fosse una reale e profonda partecipazione di tutti i lavoratori ciò sarebbe accettabile, se non desiderabile, perché ogni sforzo farebbe parte del bene comune, senza contare che si annullerebbe il rischio della 'gorziana élite', in quanto quest'ultima felice o obbligata a spartire le conoscenze, se non altro a scopo utilitaristico, attivandosi ad istruire all'ottimo richiesto ogni singolo lavoratore. Ed è per ciò che l'impresa, specie europea, se vorrà affrontare la concorrenza internazionale, avendo costi del lavoro più elevati, dovrà ripensare la propria organizzazione in termini di partecipazione, perché, come scrive Tawney "è ozioso attendersi che gli uomini diano il meglio di se stessi a un sistema in cui non hanno fiducia, o che abbiano fiducia in un sistema nel cui controllo non hanno alcuna parte".







venerdì 28 gennaio 2011

La necessità di un "saper essere" e un "saper fare" equilibrato

Nelle fabbriche del periodo taylor-fordista era preminente il saper fare proprio per l'impostazione rigida sia della produzione che della struttura aziendale. Non era necessario avere capacità relazionali o creative in un lavoro dettato da ferree regole produttive e da una rigida struttura di comando piramidale. Quello che era richiesto, qualora ce ne fosse stato bisogno, era solo il saper fare o, al limite, erano necessarie solo la forza e la volontà. Tutto era scritto, determinato e impostato dall'alto, quindi sul posto di lavoro era sufficiente portare le braccia e non la testa. Oggi le aziende hanno sempre più bisogno di personale specializzato, che sappia lavorare in gruppo, che sappia relazionarsi,  che abbia le capacità di leggere e rispondere alle continue sollecitazioni del mercato e trasformarle in adattamenti produttivi e, soprattutto, oggi c'è la necessità, come dice Serafino Negrelli, in Sociologia del lavoro, che da una funzione "di semplice servizio di sorveglianza della macchina" si passi a "un'attività di conduzione, che è più di tipo mentale che pratica e manuale". Naturalmente ciò implica che il conduttore sia a conoscenza di tutti i fattori importanti della produzione. Come scrive ancora Negrelli: " l'obiettivo è di accrescere proprio le competenze sociali ovvero di sviluppare le capacità relazionali dei lavoratori, insieme alla loro abilità professionale. Alla nuova prevalente figura del 'conduttore di impianti' è richiesta non solo la capacità di diagnosi, ma soprattutto padronanza di comportamento nel saper lavorare in squadra e avvalersi dell'assistenza di altri lavoratori qualificati".

Abbiamo visto che da un agire orientato al risultato ( saper fare) si passa ad un agire riferito al processo, che richiede soprattutto padronanza intellettuale del ciclo di lavorazione e quindi un comportamento lavorativo del saper essere, perché, come scrive Robert Reich: " poiché non è possibile definire in anticipo i problemi e le soluzioni, scambi di idee frequenti e informali servono a garantire che si faccia il miglior uso di intuizioni e scoperte e che queste siano sottoposte a una tempestiva valutazione critica".

Quanto esposto da Negrelli è estendibile a qualsiasi funzione produttiva e non solo ai conduttori, in quanto è e dovrà essere una filosofia applicata al lavoro, che, se da una parte valorizza il lavoro e il lavoratore, dall'altra dovrà essere sempre più effettiva esigenza degli imprenditori se vorranno rispondere a un mercato sempre più nevrotizzato. La pena sarà l'esclusione dalla competizione. D'altronde il fondatore e presidente della Sony è molto chiaro: un'azienda non farà mai strada se il compito di pensare è lasciato a chi dirige. Nell'azienda tutti devono contribuire, e il contributo dei dipendenti dei gradini più bassi non deve limitarsi al lavoro manuale. Noi insistiamo perché tutti i dipendenti contribuiscano con il cervello [...] Dopo tutto chi ci potrebbe indicare meglio come organizzare nel dettaglio il lavoro, se non le persone che lo fanno?"

Anche per Reich è importante lo sviluppo delle capacità delle relazioni sociali dei lavoratori, in un'azienda con organizzazione a 'tela di ragno' e scrive:  i responsabili della intermediazione strategica stanno al centro, ma ci sono connessioni di tutti i generi, che non li interessano direttamente, mentre nuove connessioni vengono continuamente create [...] le specializzazioni individuali sono combinate in modo che la capacità di innovazione del gruppo è un pò superiore alla somma delle singole parti [...] Imparano il modo di aiutarsi vicendevolmente per ottenere risultati migliori, si rendono conto del contributo che i singoli possono apportare a un determinato progetto e del modo migliore per acquisire insieme una maggiore esperienza. Ogni partecipante al lavoro di gruppo cerca di scoprire idee che possano far progredire il gruppo. Non è possibile tradurre un'esperienza e una comprensione collettiva di questo genere in procedure operative standard da trasferire facilmente ad altri lavoratori e ad altre organizzazioni. Ciascun punto notale del reticolo aziendale rappresenta una combinazione unica di capacità".

Vogliamo concludere analizzando il concetto di "creatività" di Florida, partendo dalle considerazioni che fanno seguito alle sue numerose ricerche sul campo, e cioè al fatto che le persone chiedono sempre più di "partecipare a qualcosa che veda la luce del giorno", di "portare al lavoro se stessi", di vedere riconosciuto il loro contributo, elementi costitutivi di un rafforzamento dell'autostima e della creatività.

La creatività non è esclusiva di un ristretto gruppo di privilegiati, ma si estende ( o dovrà estendersi) ad ogni funzione produttiva e gestionale, al di là dello status occupazionale, classe o settore. Se ciò non fosse, la creatività troverebbe ostacoli certi alla propria messa in atto; e sarebbe veramente vano avere un gruppo di creativi isolati. Il risultato della loro creatività dovrebbe essere fatto mettere in esecuzione attraverso procedure, regole e istruzioni, che poco  o nulla si distinguerebbe dal sistema taylor-fordista. I 'punti nodali' di florida sono disseminati in tutta l'organizzazione a 'ragnatela', quindi in ogni comparto aziendale, e creativo è, ad esempio, chi propone una geniale modifica ad un prodotto per rispondere a certe esigenze di mercato, ma creativo è anche l'operaio che propone come sfruttare l'impianto in dotazione per fare tale prodotto, magari evitando investimenti superflui.

La creatività non si insegna, la si può aiutare, la si può stimolare e , soprattutto, si possono e si devono creare i presupposti ambientali e sociali per coltivarla. La creatività è figlia naturale della partecipazione, dello scambio di idee e, soprattutto, presuppone un effettivo cointeressamento e la consapevolezza che il proprio supporto è ben accetto agli altri. Non esiste un indice di misurazione della creatività, esiste la creatività in se stessa. Semmai esiste un ambiente in cui ti viene chiesto di dare ' del tuo' e poi ti viene concessa l'opportunità dell'esperienza e della professionalizzazione, in base alla quale maturare ed accrescere anche la creatività.

In prima analisi sembrerebbe il nuovo paradiso del lavoratore, mentre sappiamo bene che l'altra faccia della medaglia è lo sforzo dello sviluppo continuo e personalizzato della formazione, maggiore stress, maggiori assunzioni di responsabilità e ritmi di lavoro elevati, ma, se tutto ciò fosse supportato da un adeguato trattamento economico, da un'effettiva partecipazione e, soprattutto, da un'equilibrata ripartizione tra il tempo del lavoro e il tempo del lavoratore, non vi sono dubbi che rispetto al lavoro taylor-fordista, dove la testa la potevi lasciare a casa, solo il sentimento dell'autostima farebbe propendere per questo nuovo lavoro. Ed è a questo lavoro che le aziende dovranno sempre più guardare, valorizzando i lavoratori e il lavoro di gruppo, che vuol dire, in definitiva, dare sicurezza del posto di lavoro, conditio sine qua non per fare l'investimento del proprio futuro in qualcosa in cui si crede e valga la pena di fare sacrifici.


martedì 25 gennaio 2011

UNA VOLTA PER TUTTE

Ho pensato molto e atteso ancora di più prima di decidere la creazione di questo blog. Alla fine mi sono deciso per due motivi fondamentali: il primo, per avere uno spazio in cui scrivere ciò in cui credo; il secondo, molto ambizioso, di confrontarmi con altre persone su un progetto che mi sta a cuore da molti anni: quali strategie sono possibili per portare il lavoro sempre più verso la persona?  Certo, molto ambizioso, visto che poco ha fatto seguito alla direttiva comunitaria 93/104 (art. 13) in cui si esorta a mettere in pratica il "principio generale dell'adeguamento del lavoro all'essere umano". Ma l'ambizione primaria è di poter collaborare con giovani, studenti e lavoratori; raccogliere i loro commenti, i loro scritti, magari le loro tesi o le loro storie. E ha poca importanza se non sono scritti in perfetta lingua italiana, ma è molto importante che ognuno possa dire, liberamente, la sua idea e ricevere il rispetto di chi legge.

Il blog non è stato creato per ricevere consensi da chi la pensa come chi scrive, perché si andrebbe poco lontani, oltre ad essere di una noia mortale. Un confronto serio lo sia ha con chi la pensa diversamente, incrociando pensieri diversi e analisi diverse, per cercare di creare un reticolo di idee, e per quanto siano larghe le maglie...un reticolo ha sempre punti di contatto! E' attraverso un confronto, magari anche appassionato, ma non per questo violento o maleducato, che si potranno ipotizzare delle comuni strategie.

Soprattutto, il blog nasce dall'esigenza di creare un "posto" in cui non ci sia la "verità assoluta", ma incertezze da risolvere, magari lavorando insieme; che non ci siano persone saccenti, sia di destra che di sinistra, che si ritengono al di sopra di tutti e in possesso del dono divino del sapere e che hanno la facilità di scrivere commenti sprezzanti per zittire o umiliare chi non la pensa come loro. Purtroppo lo credevo un problema delle persone della mia generazione, istruite e con molta esperienza, invece lo riscontro molto spesso nei giovani, in particolar modo in chi crede di avere un'istruzione tale per cui intorno c' è solo mediocrità! 

Qualcuno mi ha chiesto il perché del titolo dato al blog. Semplice, perché sono fermamente convinto che il lavoro non sia una merce, poi sono apertissimo verso chi la ritiene una "merce un po particolare" oppure una merce di scambio, al pari delle altre merci.  Comunque sia, leggendo anche autori come Aris Accornero e, soprattutto,  Enzo Mattina, che non la pensano certo come chi scrive, ho trovato un'infinità di punti di contatto. Quello che mi sento di consigliare è di non fermarsi ai titoli....ma leggere il contenuto. Il prof. Mattina l'ho conosciuto attraverso il titolo del suo libro: Elogio della precarietà. Un libro molto interessante, che consiglio, che fa valutazioni diverse da chi scrive, ma su alcune proposte per intervenire sulla discontinuità dei lavori non è possibile non condividere.

Queste sono le diversità di cui parlavo e che arricchiscono...il resto lo lascio volentieri agli altri blog.








lunedì 24 gennaio 2011

Individualismo e solidarietà

Bertrand Russell : "dobbiamo imparare a conciliare l'individualismo necessario per il progresso con la solidarietà necessaria per la sopravvivenza"

L'IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE

Un antico proverbio cinese dice: "Quando fai piani per un anno, semina grano. Se fai piani per un decennio, pianta alberi. Se fai piani per la vita, forma e educa le persona". 

Per Bauman la formazione e l'apprendimento, perché siano utili, "devono essere continui, anzi permanenti, cioè protrarsi per tutta la vita" in quanto la "costituzione dei sé o delle personalità è impensabile in qualsiasi altro modo che non sia quello di una formazione costante e perennemente incompiuta"; in nessuna altra epoca come nell'attuale l'atto di scegliere "è stato mai compiuto in simili condizioni di dolorosa e insanabile incertezza, sotto la costante minaccia di 'restare indietro' e di essere esclusi irrevocabilmente dal gioco per non avere tenuto testa alle nuove esigenze".

Pur condividendo con Supiot circa la necessità che ci sia un avvicinamento dell'università al mondo del lavoro e viceversa, e che la formazione è anche compito delle imprese, siamo altresì convinti che la formazione del lavoro, che è soprattutto specialistica, deve essere figlia dell'istruzione accademica. In Europa sono stati fatti tentativi più o meno validi in questa direzione, come in Svezia, dove il ministero dell'Educazione permette agli studenti del terzo anno universitario di ricevere una formazione pratica piuttosto che teorica, considerandola parte integrante del corso universitario, ricevendo il consenso favorevole delle parti sociali. Non è in questa sede, ma lo faremo, valutare se sia più o meno opportuno l'inserimento dei privati nell'università e in che modo gestirli. 

Quello che ci preme, per esprimere a fondo ciò che è per noi l'università, è di trascrivere un lungo brano tratto dal libro di Bauman, La società individualizzata: L'onere della formazione professionale si allontana gradualmente ma progressivamente dall'università, e ciò si riflette ovunque nella sempre minore propensione dello Stato a finanziarle con denaro pubblico. Sorge il sospetto che il fatto che non si sia ancora verificato un netto calo delle immatricolazioni nelle università dipenda in larga misura dal loro ruolo imprevisto e non contrattato di approdo temporaneo in una società afflitta da una disoccupazione strutturale: il ruolo di uno strumento che permette ai nuovi arrivati di rinviare di qualche anno il momento della verità che giunge quando si è costretti a fronteggiare le dure realtà del mercato del lavoro [...] Buon per le università che ce ne siano così tante, che nessuna sia esattamente uguale all'altra e che all'interno di ciascuna università esista una varietà sconcertante di dipartimenti, scuole, stili di pensiero, stili di conversazione e addirittura stili di interesse stilistico. Buon per le università che, nonostante tutti gli sforzi di provare il contrario compiuti da sedicenti salvatori, esperti e benintenzionati, esse non siano paragonabili né misurabili con lo stesso metro di valutazione e - cosa più importante di tutte - non parlino all'unisono. Solo università del genere hanno qualcosa di prezioso da offrire a un mondo polifonico di bisogni scoordinati, di possibilità autogenerate e di scelte che si moltiplicano. In un mondo in cui nessuno è in grado (anche se molti lo fanno, con conseguenze che vanno dall'irrilevante al disastroso) di prevedere il tipo di conoscenza che può essere necessario domani, i dibattiti che possono aver bisogno di mediazione e le credenze che possono necessitare di interpretazione, il riconoscimento di molte modalità diverse e di molti canoni diversi negli studi superiori è la conditio sine qua non  di un sistema universitario capace di rispondere alla sfida postmoderna.

La speranza della Commissione europea, nella comunicazione del 21 novembre 2001, Realizzare uno spazio europeo dell'apprendimento permanente, era di dare pieni poteri ai cittadini ( empower), a seguito dell'apprendimento permanente, ma perché ciò possa avvenire si richiede, come scrive Bauman:" che si acquisiscano non solo le abilità necessarie per giocare con successo un gioco progettato da altri, ma anche poteri per influenzare gli obiettivi, le poste e le regole del gioco", perché "l'empowerment richiede la costruzione e ricostruzione dei legami umani e interumani"  che si concretizzano nella "ricostruzione dello spazio pubblico, progressivamente abbandonato, in cui gli uomini e le donne possono impegnarsi in una continua traduzione tra ciò che è individuale e ciò che è comune, tra interessi, diritti e doveri privati e pubblici.

Oggi le persone sono sempre più distanti e disinteressate della politica e del funzionamento del processo politico, ma dobbiamo tener presente che le libertà dei cittadini non sono acquisite una volta per tutte e, tanto meno, sono al sicuro, come ricorda ancora Bauman, da attacchi esterni: Le libertà sono piantate e radicate in un suolo sociopolitico che richiede di essere concimato quotidianamente ed è destinato a inaridirsi e sbriciolarsi se non viene coltivato giorno dopo giorno dalle azioni informate di un pubblico competente e impegnato. Non sono soltanto le abilità tecniche a dover essere aggiornate continuamente, non è soltanto la formazione orientata al lavoro a dover essere permanente. Ne ha bisogno, e con urgenza ancora maggiore, anche la formazione alla cittadinanza [...] L'ignoranza produce la paralisi della volontà. abbiamo bisogno della formazione permanente per darci un'alternativa. Ma ne abbiamo bisogno ancora di più per salvare le condizioni che ci rendono disponibile, e in nostro potere, quell'alternativa.

L'importanza della formazione accademica, scolare e universitaria,  è di fondamentale importanza. Solo attraverso di essa si ha la possibilità di saper scegliere ciò che dovrà far parte dl proprio bagaglio culturale dalle formazioni presso i luoghi di lavoro. E' attraverso la scuola e l'università che, oltre alle competenze professionali, si devono acquisire quelle competenze e sensibilità sociali che saranno utili a relazionarsi in un ambiente di lavoro dove, molto spesso, l'Altro, il proprio collega, è considerato solo un fornitore o un cliente, e dove i doveri sono tanti ed evidenziati, mentre i diritti sono fonte di continue lotte. E' solo attraverso quelle competenze e sensibilità sociali che si potrà lavorare per un'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione aziendale, coinvolgendoli, ognuno per le proprie competenze, senza dover ricorrere a procedure e istruzioni operative che, spesso, hanno odore di nuovo taylorismo. Non tutti gli individui potranno o avranno i mezzi o le capacità di poter studiare a lungo, ma non per questo dovranno essere anche condannati ad una vita lavorativa, sempre che l'abbiano, dove gli sia richiesto solo di portare le gambe e le braccia. E' solo attraverso nuovi dirigenti, quadri e capi, istruiti  a certe competenze e sensibilità sociali che si potrà sperare in un nuovo modo di lavorare e tutto ciò solo la formazione accademica lo può fare, perché la formazione nei luoghi di lavoro forma solo "macchine da lavoro", in competizione tra loro, così da poter scegliere i migliori, e pochi, e fidelizzarli ai loro obiettivi. Il resto è solo supporto da utilizzare in just-in-time.




domenica 23 gennaio 2011

IL LAVORO E' O NON E' UNA MERCE?

Ormai la flessibilità è richiesta da ogni parte, come qualcosa di inderogabile. Non vi è istituzione nazionale o internazionale, giornale o governo che non invochi quotidianamente l'esigenza, la necessità o l'urgenza della flessibilità per il futuro del lavoro. Società flessibile, lavoro flessibile, tempo flessibile e uomo flessibile sono termini ormai d'uso quotidiano, che possono dar vita a scenari diversi: come fonte precarietà o opportunità; determinante per la crescita occupazionale o elemento di disgregazione sociale e di maggior impoverimento; utile alla crescita professionale e personale o causa di elevati costi personali.

Per molti autori, come Sennett e Bauman, la flessibilità del lavoro è fonte di precarietà, di instabilità e di insicurezza. Per non parlare di Gallino, il quale ritiene determinante l'opera di smantellamento, avvenuta in Italia e in altri paesi, da parte della politica che, accogliendo le esigenze dell'economia, ha continuamente tentato di smontare il principio "della temibile affermazione per cui il lavoro non è una merce" facendo"prevalere il principio per cui, dopo tutto, il lavoro non è altro che una merce".

Secondo Gallino, tra la concezione del lavoro come merce, e quella che ad essa si oppone, le differenze sono sostanziali e scrive: "Ove si aderisca al principio per cui il lavoro non è una merce, si è portati a credere che qualunque provvedimento modifichi le condizioni generali e particolari alle quali il lavoro viene prestato, a cominciare da quelle contrattuali, incide direttamente e indirettamente su tutti gli altri caratteri della persona [...] Se il lavoro è una merce, viene naturale pensare alla separazione del lavoro stesso dalla persona del lavoratore e parlare di un mercato - il mercato del lavoro - dove la merce stessa viene scambiata e venduta allo stesso titolo di ogni altra merce. Al tempo stesso, le conseguenze che la separazione dal suo lavoro può avere sulla persona appaiono irrilevanti". Tutto ciò esenta l'impresa, la collettività e lo Stato dal tenere conto della dignità, delle competenze professionali, del futuro e delle relazioni familiari del lavoratore; al limite, qualora succeda qualcosa a livello contrattuale, c'è una messa a tacere della coscienza con gli ammortizzatori sociali, che dovrebbero avere il compito di aiutarlo a ridurre e alleviare le difficoltà.

Nel testo di Mingione e Pugliese, Il lavoro, si legge: "L'applicazione automatica dell'idea di mercato al mercato del lavoro è alquanto inappropriata e [...] il fatto che la merce non sia separabile dal proprietario implica che la relazione sociale tra le parti non si esaurisce al momento dello scambio [...] ed è solo nella misura in cui il lavoro è visto come lavoro astratto che si può parlare effettivamente di mercato del lavoro. La capacità lavorativa diventa una merce". E' la capacità lavorativa, nella definizione delle dimensioni del saper fare e del saper essere a diventare merce.

Certo, si potrà obiettare se ciò è estendibile a tutti i lavoratori, di responsabilità o manovalanza; a tutti i lavoratori, istruiti o meno; e, soprattutto, se ciò potrà ridurre le disuguaglianze accentuate, oggi, più sulle donne, sui giovani e sugli immigrati.  Si sa che il mercato del lavoro non è un luogo di equità e di giustizia, per cui la capacità lavorativa deve essere supportata da interventi legislativi e regole dettate dalle istituzioni nazionali e internazionali al fine di ridurre il libero gioco della domanda e dell'offerta "negando la sua totale mercificazione".  

Quello che è certo è che se la Dichiarazione di Filadelfia, Il lavoro non è una merce,  sancita dall'Organizzazione internazionale del lavoro, ha un valore, allora è dato obbligo a tutti i governi e istituzioni internazionali di considerarlo tale. Il diritto del lavoro e le politiche del lavoro devono essere indirizzate al rafforzamento di tale principio.

Karl Polanyi nel suo famoso testo, La grande trasformazione, scriveva: Permettere al meccanismo di mercato di essere l'unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell'impiego del potere di acquisto porterebbe alla demolizione della società. La presunta merce "forza-lavoro" non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull'individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l'altro dell'entità fisica, psicologica e morale "uomo" che si collega a questa etichetta".


Gallino ad una presentazione del suo libro, Il lavoro non è una merce.

sabato 22 gennaio 2011

TRA DIRITTO E REALTA'

Pur non condividendo sulle conclusioni a cui arriva André Gorz in Metamorfosi del lavoro, credo sia impossibile non condividere quello che lui ritiene la definizione del progetto per una concezione di sinistra della società circa il legame indissolubile tra diritto al reddito e diritto al lavoro : "Ogni cittadino deve avere il diritto a un livello di vita normale; ma ognuno deve anche avere la possibilità ( il diritto dovere) di fornire alla società l'equivalente in lavoro di ciò che consuma:il diritto, insomma, di ' guadagnarsi da vivere', il diritto di non dipendere, per la sua sussistenza, dalla buona volontà di chi detiene il potere di decisione in campo economico. L'unità indissolubile di diritto al reddito e diritto al lavoro è per ciascuno la base della cittadinanza".
Il 20 gennaio, Repubblica ha pubblicato il rapporto "Noi Italia":http://noi-italia.it con un titolo disarmante : " Un giovane su 5 non studia e non lavora. L'Italia ha il primato negativo della Ue". Le cifre, naturalmente, si riferiscono ai dati del 2009, anche se le speranze per un miglior 2010 sono veramente esigue.

Da tale rapporto si evince che in termini di reddito il 10,8% delle famiglie residenti vive in condizioni di povertà relativa, cioè 7,8 milioni di individui. La povertà assoluta coinvolge il 4,7% delle famiglie, per un totale di 3,1 milioni di individui.

Ancora più drammatico è quanto si legge circa il lavoro , la disoccupazione e il sommerso. Circa il 45% dei disoccupati è in cerca di lavoro da oltre 1 anno, una delle quote di disoccupazione di lunga durata (44,4%) più alte nell'Unione europea a 27.

Si rasenta la tragedia quando si getta lo sguardo sul mondo giovanile. L'Italia è prima in Europa per numero di ragazzi che abbandonano gli studi e non lavorano dai 15 ai 30 anni. Il tasso di disoccupazione giovanile ( 15-24 anni) è pari al 25,4% (4 punti in più rispetto al 2008) tenendo conto che la media europea si attesta al 19,8%. E' inquietante, inoltre, che nella fascia di età 15-64 anni sia occupato solo il 57,5%.

I livelli di occupazione femminile restano ben al di sotto delle medie europee. Nel nostro bel Paese quasi il 50% di donne non lavora e/o neanche cerca lavoro. Per non parlare delle notevoli differenze di genere persistenti: le donne occupate sono il 46,4% contro il 68,6% degli uomini.

Con riferimento alla situazione del 2008, la quota di lavoro irregolare è dell'11,9%. Al Sud un lavoratore su cinque può essere considerato irregolare ( nell'agricoltura, addirittura, uno su quattro).

A livello di indice di vecchiaia siamo dietro solo alla Germania, si pensi che al Gennaio 201o per ogni 100 giovani corrispondevano 144 anziani e ciò, unitamente ai dati occupazionali, spiega l'elevata spesa per l'assistenza sociale, pari al 30% dell'intera spesa sociale, circa lo 0,42% del Pil, con un ammontare per abitante superiore ai 7.500 euro annui e ben al di sopra della media dell'Unione.

La brevissima descrizione dei dati ricavati nel rapporto non solo è lontana anni luce dal gorziano progetto di una giusta società, ma nei confronti dei disoccupati non risponde neppure all'art. 4 della Costituzione : "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto...". Se poi andiamo a leggere l'articolo 36 della Costituzione : " Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa", allora non si capisce perché circa 10 milioni di individui siano relegati nelle soglie di povertà relativa e assoluta.

Qualcuno propone che sia rivisto il sistema di welfare, troppo costoso, dimenticandosi di valutare il perché di tali costi. Certamente va rivisto, come l'insieme delle politiche del lavoro, dalle quali discendono tali costi, ma è fuori dubbio che la costruzione di un diritto di proprietà sociale, equivalente alla proprietà privata, proposta da Castel, per far fronte alle difficoltà crescenti di protezione dai rischi sociali sia un punto fermo per una "giusta" società. Per Solow il welfare deve evitare "un mercato lasciato libero di agire (che) abbandona una certa porzione di cittadini, che spesso include numerosi bambini, in uno stato di profonda indigenza". Oltre ad avere il compito, come scrive Supiot di far sperare, anzi, gettare le basi, in una nuova figura, " quella di un lavoratore che riesca a conciliare sicurezza e libertà".