lunedì 28 febbraio 2011

BONUS O PREMIO: non risarcisce il minor valore-lavoro

Lo spunto ci viene dato dall'articolo che abbiamo letto su Il Fatto Quotidiano, Bonus su misura, relativo alla decisione dell'azienda trevigiana Replay di distribuire il premio di produzione ad personam: in pratica il premio viene commisurato all'impegno del dipendente. Naturalmente il ministro Sacconi ha applaudito alle nuove relazioni industriali, che danno "un segnale preciso che va nella direzione di una sempre maggiore compartecipazione nell'attività e negli utili delle imprese".
A parte il fatto che non riusciamo a capire come possa il ministro vedere segnali così positivi verso la compartecipazione all'attività e agli utili dell'azienda, ma ciò è ininfluente, quello che ci preme evidenziare è sono alcuni aspetti della notizia.
Il premio di produzione non è un indice di compartecipazione all'attività e agli utili dell'azienda, perché ciò dovrebbe essere l'ovvia conseguenza di un progetto che veda i lavoratori "partecipi" fin dall'inizio e cioè nella fase di analisi delle strategie aziendali; nella gestione della produzione e nell'applicazione del Sistema di qualità; nella condivisione dei progetti, nella ricerca e sviluppo dei prodotti. Quello di cui si parla nell'articolo è un premio legato a dei traguardi che si vogliono raggiungere, come il fatturato, gli utili, la produttività, la riduzione degli infortuni, la riduzione delle non-conformità ecc. Il premio serve all'azienda per ottenere dai dipendenti qualcosa in più, senza doversi impegnare più di tanto in particolari "nuove relazioni" e, tanto meno, senza dover "aprire il capitale ai dipendenti", come sostenuto dal vicepresidente della Fashion Box, proprietaria della Replay. Questo tipo di premio di produzione sta alla discrezionalità dell'azienda ed ogni anno può stabilire, a suo insindacabile giudizio, se darlo o meno e quale dovrebbe essere l'entità e/o la modalità di giudizio.  Con una partecipazione effettiva dei lavoratori ciò non sarebbe consentito, perché il tutto sarebbe stabilito a priori, a seguito di un ben definito progetto e definiti traguardi, per altro verificabili. In questo caso si parlerebbe di partecipazione agli utili aziendali.
Un altro elemento, che non sarà gradito a molti, è la modalità di distribuzione del premio di produzione. Si parla spesso di "meritocrazia", nella politica, nella pubblica amministrazione, nella scuola, ma quando si tocca in qualche modo la fabbrica è una parola che mette paura. Si potrà discutere sulle modalità di impostazione del premio di produzione, quale può essere il metro di misurazione, le voci che concorrono a stabilire certe priorità, le modalità di parametrizzazione e di verifica, ma che il premio sia, in qualche modo, legato anche all'impegno dei lavoratori non dovrebbe suscitare tanto scandalo. Ciò non vuol dire che tutti debbano essere dei geni per avere il premio, ma che ognuno, secondo le proprie capacità e funzioni, dia il massimo. Il premio deve essere dato al responsabile che ha la genialità di un'ottima soluzione produttiva, ma anche all'operaio che riesce a sfruttare bene le macchine a sua disposizione per produrre l'"ottima soluzione produttiva". In questa tipologia di premi, sarebbe un'ottima cosa dividere in due parti l'ammontare: la prima, legata all'andamento dell'azienda e generalizzato su tutti i dipendenti; la seconda, in funzione dell'impegno del dipendente. 
L'ultimo elemento che vogliamo sottolineare è la sottile ironia circa la partecipazione dei lavoratori al capitale dell'impresa, "vagheggiata dai sindacati più collaborativi, cioè Cisl e Uil".  Pur non essendo mai stati iscritti ai due precedenti sindacati, noi siamo estimatori del modello renano, anche in funzione dei risultati che stanno ottenendo (si veda il contratto Wolksvagen), ma soprattutto perché siamo consapevoli che certi risultati come occupazione, lavoro, ricchezza ecc, si ottengono se c'è la partecipazione di tutti gli attori. Saremmo curiosi di capire in che modo si potrà recuperare il "valore lavoro", oltre ai numeri di posti di lavoro necessari per i nostri giovani, se non con la partecipazione. Certo ci vorrebbero poche, chiare e inderogabili leggi, come binario su cui camminare; ci vorrebbe un Governo che avesse la capacità di fare una buona politica economica, e ci vorrebbero dei sindacati che sapessero guardare al progetto al di là dell'ideologia. Talvolta si ha la sensazione che ci sia nostalgia del vecchio fordismo, dove l'operaio valeva meno della pressa su cui lavorava, dove i sistemi di sicurezza non si sapevano neanche che cosa fossero, dove la conflittualità era all'ordine del giorno, ma, una cosa era certa, da una parte c'erano i padroni e dall'altra i lavoratori. E per i sindacati era un lavoro facile. Oggi si chiede loro di non fare battaglie di trincea o di assalto alla baionetta, ma di lottare alla pari del capitale per riprendersi ciò che quest'ultimo ha tolto ai lavoratori: occupazione e valore-lavoro. Finché parleremo di bonus o premio di produzione non riusciremo mai a risarcire i lavoratori della diminuzione del valore-lavoro.


sabato 26 febbraio 2011

PMI e il " Sistema di conoscenza condiviso"

La domanda che spesso ci poniamo è se sia meglio sviluppare la nostra struttura a piccole e medie imprese oppure, per sopravvivere, se sia necessario costruire imprese di grandi dimensioni. Pmi in crisi. La risposta più ovvia sembrerebbe andare nel verso di queste ultime, perché ci permetterebbero un numero maggiore di posti di lavoro; una maggior forza di penetrazione sui mercati internazionali; maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, quindi, perché no, maggior possibilità di fare brevetti. Ma ci sono delle considerazioni che premono sull'ovvietà: come costruirle, chi le deve costruire e, soprattutto, ne abbiamo le possibilità? 
La nostra storia industriale, basti leggere il testo di L.Gallino "La scomparsa dell'Italia industriale", sembra indicarci una scarsa propensione verso la grande industria. Abbiamo dissipato migliaia di miliardi di vecchie lire nella chimica e nell'elettronica di consumo; abbiamo distrutto il settore dell'aviazione civile, vanto tutto italiano; abbiamo svenduto un'eccellenza della meccanica di precisione, l'Oto Melara; non siamo stati capaci di dare un sostegno nella ricerca e sviluppo alla Olivetti, quando era fra i primi sei produttori mondiali di mainframes: senza considerare che quando l'IBM si avvantaggiava di lucrose commesse ottenute dal governo federale Usa, i nostri ministeri e amministrazioni pubbliche avevano un solo computer dell'italica azienda, quello donato da Adriano Olivetti al ministero del Tesoro. Si sono sperperate e distrutte eccellenze a causa di una politica disastrosa e di un manipolo di manager incapaci. E non si dica che è storia vecchia, perché è di poco tempo fa il disastro di Parmalat e Cirio. E quando tutto questo accadeva, le Pmi tenevano in positivo il saldo occupazionale, senza contare che sono riuscite a salvare le esperienze di quel patrimonio umano che in quelle aziende operava.
La Pmi ha subito la crisi di questi anni, ma molte l'hanno contenuta, altre si sono rinforzate, ma, di certo, sono già pronte a ripartire, di sicuro con fatica, ma ripartono. il Nord-Est rialza la testa. Tra l'altro se guardiamo alle grandi imprese, nel 2010 abbiamo avuto un calo dell'occupazione del 1,6%, rispetto al 2009, e le retribuzioni hanno avuto un incremento del 1,5%, sempre rispetto al 2009; ma si tenga conto  del 3,1% di aumento concordato alla wolksvagen con l'ultimo contratto grandi imprese, cala l'occupazione e sale la retribuzione.
In questo momento la cosa più urgente è creare lavoro, e non è importante se è nelle grandi aziende, nelle Pmi, nelle microimprese o nell'artigianato, l'importante è cercare di impiegare il maggior numero di giovani, per ridurre la disoccupazione e sfoltire le fila dei giovani NEET, la nostra vera vergogna. E' senza il lavoro che non c'è salvezza. Per noi è una boccata di ossigeno  sapere che delle 213.000 nuove imprese del 2010 siano state create dagli under 30. Bamboccioni? No, grazie.
E' con la memoria del passato e consapevolezza del presente che si può costruire il futuro. Quello che è certo è che abbiamo una forte Pmi e, in certe nicchie, delle vere e proprie eccellenze. Quello di cui dobbiamo essere consapevoli, è che siamo agli ultimi posti fra i paesi Ocse circa l'innovazione, si legga non è un paese di innovatori. Infine, sarà prioritario e determinante riformare la scuola e l'università al fine di istruirci le "teste" per il futuro. Ma non è con gli incentivi monetari allo studio che si raggiungono i risultati. I giovani hanno il dovere di studiare, non fosse altro che per il loro futuro, e sta alla scuola e all'università far si che possa diventare anche piacevole. Il sistema scolastico e accademico devono ritrovare un valore assoluto, che riguarda maestri, professori, accademici e studenti: la meritocrazia. Il diritto allo studio è sacrosanto e inviolabile, ma, come in ogni attività, il valore espresso non è uguale per  tutti. Ogni persona deve dare, si deve impegnare e deve ricevere secondo le sue capacità, ma per avere l'eccellenza si devono coltivare le eccellenze. Quello che deve essere garantito è che ognuno abbia il diritto al lavoro, ed è per questo che si devono coltivare le "teste" che si impegnino  a crearlo, migliorarlo e ampliarlo. Invece di dare sostegni monetari per incentivare gli studenti a studiare, si dovranno pensare stage formativi seri, si legga il precedente post "STAGE E DISOCCUPAZIONE", si devono sostenere gli studenti che frequentano master e dottorandi in Italia e all'estero, per poi far tesoro delle loro esperienze acquisite. 
La sfida per il futuro si gioca nel fare "sistema" e per farlo bisogna avere una visione circolare. Dobbiamo sfruttare ciò che abbiamo e inserire ciò che manca, ma tenendo presente le nostre forze e le nostre potenzialità. Per fare "sistema" è necessario avere un Governo che sappia tracciare, sostenere  e spingere una politica di sviluppo industriale adeguata; è necessario che l'università guardi al mondo del lavoro e alle sue esigenze; soprattutto,  che costruisca programmi moderni, nei quali la teoria e la pratica facciano parte del programma accademico, come in Svezia. Senza contare che questo darebbe nuova linfa alle università, che sarebbero tenute a elevare continuamente i loro standard nei programmi, negli aggiornamenti dei professori e nella preparazione dei loro studenti. E' necessario che l'università, le imprese, lo Stato e le regioni sviluppino un progetto in cui ad ogni università sia associato un Centro Ricerche (per tipologia di insegnamento), che sia al servizio del privato e del pubblico; nel quale  si effettui ricerca e sviluppo e, perché no, si facciano brevetti. In tal modo si svilupperebbe un sistema si "conoscenze condivise" il cui costo sarebbe ripartito fra più partner. Ciò permetterebbe di costruire posti di lavoro di elevata qualità, che ci permetterebbe di trattenere o richiamare i nostri cervelli, sparsi per il mondo. Ci permetterebbe di valorizzare tutti quegli studenti che dopo tanti sacrifici decidono di rimanere all'estero perché la loro nazione non sa offrirgli un lavoro decente. Permetterebbe di ripopolare quelle facoltà, oggi carenti, come matematica, fisica, ingegneria ecc. Che senso ha studiare matematica se poi il neo laureato deve far parte dell'esercito di precari della scuola; meglio una laurea in economia e commercio, che, in qualche modo, un lavoro lo riesce a far trovare. Un "sistema di sapere condiviso" avrebbe anche l'opportunità di  creare nelle Pmi sinergie produttive, alleanze strategiche, fusioni o altro, che potrebbero portare anche a dimensioni più grandi per meglio sviluppare le proprie potenzialità. 
Certamente tutto questo ci porta distanti dalle convinzioni dei ministri Meloni e Sacconi, condividendo quanto scrive Guglielmo Forges Davanzati su Micromega, i quali sono convinti che la scolarizzazione abbia la funzione di agevolare l'accesso al mercato del lavoro e che occorre calibrare sulla base delle domande di lavoro espresse dall'impresa. L'economia italiana è sempre più un'economia periferica, nella quale le imprese, non riuscendo a competere innovando, esprimono una domanda di lavoro poco qualificata e quindi meno remunerata (dalle statistiche Ocse risultiamo al 23° posto su 30 paesi). Quindi sarebbero logiche alcune domande: allora cosa facciamo? Aspettiamo che si diventi ancora più periferici? Oppure facciamo in modo che almeno diventi una periferia di lusso? Se i nostri ministri sono consapevoli di questa situazione, ci chiediamo quale sia il compito di un Governo, se non quello di dare gli indirizzi più consoni per uscire dalla crisi sempre più pressante. Non può esserci un'attesa passiva e un'adeguamento della scuola al lavoro, ma deve essere un lavorare insieme per uscire da una situazione di stallo, se non di continua perdita di posti di lavoro. Soprattutto, a differenza dei nostri ministri,  noi riteniamo che la scuola non debba calibrarsi sulle domande del mondo del lavoro, ma debba essere un partner del cambiamento del mondo del lavoro. Deve, soprattutto, sentirsi parte integrante dell'evoluzione dello stesso e deve mettere in campo la conoscenza per arrivare dove altri, con mezzi superiori, riescono ad arrivare. 
Quando il ministro Tremonti dice che con la cultura non si mangia, forse un pizzico di ragione ce l'ha, se guarda al presente. E' certo che senza di essa, comunque, in futuro non si mangerà.

venerdì 25 febbraio 2011

MARCHIONNE: Fiat voluntas tua

Non è importante che sia una piccola o grande cosa, ma la Fiat ha annunciato che dal 14 marzo entra in vigore il nuovo sistema delle pause dei lavoratori presso lo stabilimento di Melfi (3 pause da dieci minuti anziché da venti minuti). Ciò ha provocato il disappunto sia della rsu che della Uilm , che si sono affrettate a dire che "non servono fughe in avanti, sono dannosi gli atti unilaterali d'imperio" ma è utile verificare "le ricadute concrete del progetto Fabbrica Italia negli altri stabilimenti".
Ma cosa sono questi "atti unilaterali d'imperio"? Infondo sono accordi stipulati a seguito di scissioni sindacali e divisioni fra i lavoratori, fino a dover ricorrere ad un referendum. Marchionne sta attuando ciò che è scritto su quegli accordi. Certo, erano accordi che riguardavano altri stabilimenti; oltretutto sarebbe stato corretto effettuare prima una verifica, poi concordare con il sindacato se poterli applicare anche in altri stabilimenti, ma sono facezie, quisquiglie, amenità. Se vanno bene per Mirafiori, perché non vanno bene per Melfi? Dove sta l'atto d'imperio. L'essersi dimenticato di informare i sindacati firmatari che ciò che loro hanno firmato non deve essere verificato ma applicato? O forse sta nel fatto che sta forzando la mano per anticipare i tempi su qualcosa di cui loro non sanno prevederne gli esiti? In fase di contrattazione i sindacati firmatari avranno valutato bene ogni aspetto, ogni possibilità e ogni evenienza, per cui se la riduzione dei tempi di pausa crea maggiore produttività e maggiori guadagni, anche per i lavoratori, non vediamo dove sia l'atto di imperio a estendere tali condizioni anche a Melfi.
Noi abbiamo due sensazioni forti: che l'atto d'imperio non sia ancora avvenuto e che con quell'accordo, non sostenuto da tutti gli attori interessati e privo di esplicite strategie aziendali, si siano messi nella condizione di subire ancora "fughe in avanti"; e, soprattutto,  che se la Fiom e un Governo interessato non parteciperanno ai futuri giochi, i sindacati firmatari, sottoposti al continuo gioco del ricatto dell'a.d., dovranno accettare molti altri "atti d'imperio". 
Senza la Fiom non è possibile instaurare una nuova strategia di gestione delle relazioni industriali, tali da obbligare il Governo a fare la sua parte e l'azienda al rispetto delle regole: all'appello manca il 49% della forza-lavoro referendaria. Ma, per fare ciò,  dovranno essere i sindacati firmatari e la Fiom a fare una fuga in avanti, cioè dovranno rivedere le loro strategie e modernizzarsi per il futuro. Noi abbiamo bisogno di posti di lavoro; abbiamo bisogno della Fiat e di tutte le aziende che operano nel nostro paese, anzi, sono ancora poche, ma dovranno mettersi nell'ordine di idee che in questo difficile momento è necessario che i sindacati co-gestiscano il lavoro. Dobbiamo guardare alla Germania. 
Marchionne non è un manager illuminato, anzi, rappresenta la peggior qualità di manager, di puro stile americano, impegnato più verso gli azionisti che non i lavoratori, ed è per questo che un forte sindacato interessato alle sorti dell'azienda, quindi del lavoro, sia elemento indispensabile per fare in modo che la Fiat riacquisti quelle porzioni di mercato necessarie a sviluppare maggiori posti di lavoro, salvaguardando, naturalmente, sempre i diritti dei lavoratori. Ma è, altresì, necessaria la funzione del Governo: in ogni paese i rispettivi governi entrano con forza e con grande ruolo nello sviluppo industriale e nelle scelte delle grandi imprese, specie se sono comparti ritenuti decisivi e strategici, e, in particolar modo, in periodi di difficoltà economica.
Se ciò non si riuscirà a raggiungere, sia per i sindacati firmatari che per la Fiom non resta che abbassare la testa e " Fiat voluntas tua!".




mercoledì 23 febbraio 2011

IL VALORE SUPREMO DELLA LIBERTA'

Thomas Arnold, il fondatore della famosa scuola inglese in cui fu inventato il rugby, quarant'anni dopo la rivoluzione francese, definì l'idea che la libertà fosse il valore supremo "una delle massime più false che abbia mai assecondato l'egoismo dell'uomo in nome della saggezza politica". In dettaglio spiegò quella massima nei seguenti termini: "la massima secondo cui la società civile dovrebbe lasciare in pace i suoi membri, ciascuno ad occuparsi dei suoi interessi personali, purché essi non impieghino l'inganno o la violenza nei confronti del proprio prossimo [...] Sapendo molto bene che le  [persone] non sono uguali per quanto riguarda il potere naturale, [né] per quanto riguarda i vantaggi artificiali; sapendo anche che il potere di qualsiasi tipo ha la tendenza ad accrescersi, ci facciamo da parte e lasciamo che questa competizione impari vada avanti, dimenticando che il concetto stesso di società implica che non vi debba essere semplicemente una competizione, ma che il suo scopo sia il bene comune di tutti, limitando il potere dei più forti e proteggendo gli indifesi e i più deboli".

lunedì 21 febbraio 2011

LO STAGE E LA DISOCCUPAZIONE

Si parla sempre più spesso della necessità di riformare il mercato del lavoro e della formazione per combattere la disoccupazione giovanile e l'effetto che quest'ultima ha se è duratura. Lo stage, se organizzato con regole adeguate, potrebbe essere uno strumento valido per arricchire il curriculum lavorativo dei giovani e permetterebbe loro di presentarsi sul mercato del lavoro con un'adeguata preparazione.  Troviamo interessante lo studio un nuovo stage contro la disoccupazione giovanile

In Svezia, il ministero dell'Educazione permette, agli studenti del terzo anno universitario, di ricevere una formazione pratica piuttosto che teorica, considerandola parte integrante del corso universitario, ricevendo il consenso favorevole delle parti sociali

Da tempo ci sono proposte per dare qualità e affidabilità agli stage e qualcuno propone anche controlli severi sulle aziende/attività che li effettuano. In sintesi vediamo quali sono le proposte avanzate:
  • DURATA: limitata nel tempo
  • PROGETTO: lo stage dovrà essere finalizzato e reso verificabile in termini di risultati raggiunti
  • TUTOR: durante il periodo di stage deve esserci un tutor che segua il giovane lungo tutto il progetto, dando il supporto necessario affinché diventi un reale periodo di apprendimento in un vero progetto formativo. 
  • RIMBORSO SPESE: dovrà essere istituita una somma, a titolo di rimborso spese, magari proporzionata alle ore dello stage, distanza dall'abitazione, titolo di studio ecc.
  • CONTROLLO E MAPPATURA: dovranno esserci controlli sugli stage che le aziende offrono, valutandone la qualità, la disponibilità all'insegnamento ecc. Dovrà essere istituita una mappatura delle aziende/attività virtuose o meno. 
  • CONTRIBUTI PENSIONISTICI: una voce che ancora non si è letta nelle varie proposte, ma che la riteniamo molto importante. Si dovranno trovare le modalità, magari con contribuzione mista, pubblico-privato, affinché i periodi di stage siano considerati, a tutti gli effetti, periodo lavorativo.
Ci sono giovani laureati che fanno "esperienza" per anni in studi di avvocati e commercialisti che non vengono pagati o pagati male e in nero. E tutto questo nell'attesa di superare un assurdo, mal strutturato e anacronistico Esame di stato.

Lo stage non deve essere un irregolare sistema di far lavorare i giovani in modo irregolare, al contrario,  dovrebbe essere un regolare sistema di crescita professionale. In questa fase storica, nella quale l'irregolarità e la precarietà sono diventate consuetudine, ridare credibilità agli stage permetterebbe di raggiungere tre obiettivi importanti:  formare i giovani alla vita professionale; ridurre la disoccupazione giovanile; fare emergere parte di lavoro nero.

domenica 20 febbraio 2011

STORIE DI QUOTIDIANO RAZZISMO

Nel leggere i dati Ocse relativi alla disoccupazione ti chiedi se sia normale e accettabile che fra i paesi Ocse possano esistere ed essere tollerati dati che presentano 42.000.000 (per esteso fa una certa impressione!)  di disoccupati alla fine del 2009; che si presentino come un  successo 900.000 disoccupati in meno alla fine del 2010 (-2%). Da questi paesi mancano quelli del centro e sud America, dell'Asia e dell'Africa. Ma quanti sono in tutto? Ma quanti sono quelli a cui viene estorto uno dei più elementari diritti della persona? Allora ti chiedi come sia possibile che tutta questa miseria non faccia pressione sui confini di quei paesi che si ammantano di essere democratici, evoluti e portatori dei sani principi di libertà, fraternità e uguaglianza. Ti chiedi come sia possibile risolvere i problemi interni ad ogni paese se non si tiene conto dei problemi del nostro "vicino globale". Ti chiedi, soprattutto, come sia possibile che "quel mondo", un giorno o l'altro, non abbatta definitivamente quei confini. Un motto latino recita "si vis pacem, cole iustitiam".


Qualche giorno fa mi sono fermato all'edicola, che è in prossimità dell'azienda per cui lavoro, e sono venuto a conoscenza che una storica azienda del posto aveva licenziato 30 operai. L'azienda è in una piccola frazione dove tutti sanno tutto di tutti. Ma il licenziamento di trenta persone era rimasto quasi nascosto. Allora chiesi come fosse stato possibile e la risposta, che riporto testualmente, è stata "Tranquillo dottore, erano quasi tutti extracomunitari !" Extracomunitari non persone! Che problemi ci sono, al limite, se tornano al loro paese; infondo sono solo lo 0,0000007% dei 42.000.000 di disoccupati! Statisticamente ininfluenti.

Ma a queste persone, lontane dai loro paesi da anni, con le famiglie e i figli da mantenere, che hanno pagato le tasse per il tempo che hanno lavorato, che hanno un affitto da pagare, che devono mandare a scuola i figli e, cosa anche per loro normale, che devono mangiare, gli diciamo che sono statisticamente ininfluenti? Oppure dobbiamo dirgli che devono tornarsene a casa se non sono residenti da noi da almeno 15-20 anni, come sostiene la prof.ssa Busetti, sindaco di Thiene e appartenente alla Lega? thiene: troppi stranieri. Fino ad oggi hanno fatto lavori che i nostri connazionali non volevano più svolgere, hanno partecipato alla crescita del paese, hanno pagato le tasse, i contributi, hanno avuto uno straccio di vita dignitosa e, come oggetti usa e getta, gli diciamo che non ci servono più e che se ne devono tornare a casa loro. 


Nel libro Il lavoro nel mondo che cambia, Richard Dore scrive "La tolleranza crescente nei confronti della diseguaglianza, nei confronti sia della sua esistenza che della sua crescita [...] ha implicato una trasformazione importante dell'idea di giustizia". 













sabato 19 febbraio 2011

IL GIUDIZIO DEI NUMERI

E' passato qualche giorno dalla conferenza stampa nella quale il premier e il ministro dell'economia tentavano di presentare un resoconto positivo della politica economica degli ultimi  due anni. In almeno tre o quattro interviste televisive, il ministro Sacconi decantava l'operato dell'Italia nel campo dell'occupazione, evidenziando come il nostro tasso di disoccupazione fosse al di sotto della media europea. Ed è ancora fresca la presentazione del futuro progetto di Termini Imerese, in cui sette progetti industriali approvati dovrebbero installarsi nell'attuale sede della Fiat, quando a fine anno cesserà la produzione. In termini occupazionali i posti di lavoro dovrebbero, condizionale obbligatorio, passare dagli attuali 1.500  a circa 3.300. L'investimento complessivo dovrebbe essere di oltre un miliardo, con 650 milioni di euro  attesi da aziende private e 350 milioni  da soggetti pubblici coinvolti. I sindacati , tutti, hanno espresso prudente soddisfazione e la Cgil ha aggiunto che esprimerà un giudizio quando ci sarà un piano chiaro. Comunque sia, è un progetto che avrà tempi di realizzo diluiti in 3 anni. Oggi è un tempo molto lungo, specialmente se a fronte dell'attesa di una spinta alla ripresa economica si promette di abolire degli articoli della Costituzione, il Pil e la Costituzione non sono la stessa cosa . Vogliamo solo sperare che non sia una manovra politica per tentare di accrescere consensi, perché i dati Ocse, e non i corvi o menagrami, ci presentano una situazione disastrosa.

Nel quarto trimestre del 2010 rallenta la crescita economica dei Paesi Ocse (Pil): da un + o,6 del trimestre precedente ad un + 0,4. In Italia si passa da + 0,3 a + 0,1, restando ben al di sotto della media europea.
Se ci raffrontiamo al 2009, nel G7 la crescita più alta è quella  registrata in Germania (+ 4%) e la più  bassa in Italia (+1,3%). crescita in frenata.

Oltre ai dati relativi alla crescita economica è importante  anche estrapolare dei dati significativi, che se comparati con i precedenti, fanno capire quanto sia enorme la sproporzione da ciò che si è presentato come positivo a ciò che in realtà appare. Di seguito i dati sono relativi solo all'Italia ( Ocse 03/02/2011) dati Ocse 

Tasso di disoccupazione: 2009 (8,6%) - 2010 (8,6%). Rimane stabile, mentre nei paesi Ocse scende di 0,1%
Disoccupazione giovanile (15-24 anni): 2009 (25,4%) - 2010 (29%). Fra i Paesi Ocse abbiamo solo quattro paesi che hanno una situazione peggiore della nostra.
Tasso di occupati sul totale della forza-lavoro (uomini): 57,5% Solo l'Ungheria e il Cile hanno una situazione peggiore.
Tasso di occupati sul totale della forza-lavoro (donne): 46,4% Solo Cile, Messico e Turchia hanno una situazione peggiore. (11% in meno degli uomini!)
Disoccupazione di lungo termine: 44,4% Solo il Cile è dietro all'Italia.
Ore per lavoratore (anno): 1.773,4 Più dell'Italia Rep. Ceca, Grecia, Ungheria, Polonia e Messico. Abbiamo superato anche gli Usa.

Se incrociamo i dati relativi alla crescita economica con quelli successivi, appare evidente una situazione che sarebbe un eufemismo dire che è allarmante. Soprattutto se ogni ipotesi di politica economica è stata rimandata al 2012; se il ministro dell'economia si ritiene soddisfatto di come sono stati tenuti i conti; se non si interviene rapidamente a creare lavoro. In questa fase è necessario che le parti sociali facciano un patto forte per concorrere insieme a oltrepassare la crisi, dandosi un tempo di verifica a crisi risolta. Ciò non vuol dire che i lavoratori debbano rinunciare ai loro diritti. Anzi, semmai il contrario. Non è il tempo di azioni strategiche per la conquista egemonica dell'uno sull'altro, ma è necessario che ci sia una stretta collaborazione fra impresa, sindacato e operai. L'impresa deve rendersi conto che la forza-lavoro, in questo momento, è la risorsa maggiore per risolvere la crisi; tanto più se gli viene richiesta la partecipazione. L'impresa deve capire che oggi è determinante che il sindacato sia parte attiva all'interno della stessa. E il sindacato dovrà avere la forza di cambiarsi d'abito e co-gestire l'impresa  ( Germania docet). Le modalità si trovano e, magari, si affineranno, ma adesso è emergenza. 

Certo, servirebbe una classe politica preparata e interessata al Paese; un vero Governo del fare, che dicesse la verità e cominciasse a studiare lucide strategie di politica economica; che diventasse prioritaria la vita delle persone; che desse slancio alla piccola e media impresa, che nelle situazioni di crisi hanno sempre trovato le soluzioni migliori. Soprattutto sarebbe necessario che il Governo governasse per la gente, ma questa è un'altra storia.









mercoledì 16 febbraio 2011

OLIVETTI: UN ESEMPIO DA SEGUIRE

Dopo aver letto l'articolo di Raffaele Mauro nel suo blog, Olivetti, che consiglio di leggere, mi sono ricordato di quando fui chiamato a Ivrea per un colloquio, insieme ad altri due studenti dell' ITIS di Pisa. Era il sogno di ogni diplomato in telecomunicazioni poter andare a lavorare nella mitica Olivetti. Un vero  mito.
Negli anni anni '50 - '60 del secolo scorso erano rari e molto contradditori i casi di imprenditori illuminati. All'interno della fabbrica di Ivrea i rapporti fra la proprietà e i sindacati erano ottimi; non esistevano licenziamenti per motivi sindacali o per ritorsione politica; numerosi studiosi, fra i quali Luciano Gallino e Alessandro Pizzorno, collaboravano con la direzione; Adriano Olivetti era un imprenditore moderno e illuminato. Si interessava ai lavoratori e alle loro famiglie; stimolava i lavoratori allo studio, dando tutte le agevolazioni possibili; pretendeva che vivessero la fabbrica e non la subissero.  Al di fuori della fabbrica, amministratori locali competenti e onesti si prodigavano a dare tutti i servizi sociali. Anche alla Olivetti, purtroppo,  c'erano lavori che più che la testa servivano le mani e dove i ritmi erano forsennati, come il montaggio dei tasti e dei levismi delle macchine da scrivere, ma, a differenza degli altri imprenditori, Adriano Olivetti lo sapeva e cercava di ricompensarli con un ambiente lavorativo  che si curasse di loro; dava salari superiori e, soprattutto, sono certo che se avesse avuto qualche altro anno a disposizione avrebbe automatizzato certe lavorazioni. 
Ma perché un'azienda come la Olivetti, tecnologicamente all'avanguardia, sensibile ai rapporti umani e che si preoccupava del benessere dei propri dipendenti ad un certo punto è sparita? Perché proprio la Olivetti? Potrebbe sorgere il dubbio che il binomio profitto - lavoro per la persona non vadano d'accordo.  
Attraverso una breve e spero esaustiva sintesi della sua storia, che, in linea di massima, si divide in tre fasi, di darne conto. Forse, ma lo lasciamo scorgere a chi legge, si ritroveranno molte similitudini con i nostri tempi; eppure sono trascorsi oltre cinquant'anni e la politica è rimasta la stessa. Per questa breve sintesi ci aiuteremo con il testo di Gallino, La scomparsa dell'Italia industriale.

Nel 1955 la Olivetti era leader mondiale delle macchine da scrivere  e le calcolatrici elettromeccaniche. Aveva 50.000 dipendenti: metà era in Italia e l'altra età distribuita in 170 paesi nel mondo. Nel 1953 l'Ibm aveva lanciato il suo primo calcolatore elettronico prodotto in serie. Si pensi che con questa azienda avevano collaborato al progetto grandi scienziati, come il fisico Robert J.Oppenheimer e il matematico John von Neumann. Solo grandi imprese, o centri di ricerca adeguatamente finanziate, potevano permettersi i costi di investimento iniziale e poi di gestione di simili macchine.
Nel 1959 (prima fase) esce  l'Elea 9003, il primo calcolatore elettronico interamente costruito e progettato in Italia, proiettando la Olivetti fra i primi sei produttori di mainframes al mondo. Dichiarata dalla concorrenza come la macchina d'avanguardia. I primi clienti furono Marzotto, Fiat, Monte dei Paschi di Siena, Cogne. In un anno furono vendute oltre quaranta unità.
Nel 1960 muore Adriano Olivetti, lasciando l'omonima ditta in difficoltà finanziarie, che, poi la famiglia non fu in grado di superare  e lo vedremo nel 1964.
Nel 1961 venne lanciato il modello più leggero ed economico, concepito per le piccole e medie aziende: Elea 6001. Nello stesso anno muore anche l'ing. cinese Mario Tchoo, considerato il massimo esperto di elettronica in Italia e determinante per la progettazione dei modelli Elea.
Nel 1962 il successo della Olivetti era enorme, ma ciò non era sufficiente per pareggiare il bilancio della Divisione Elettronica. Davanti aveva solo l'irraggiungibile Ibm, diventata grande per sue capacità e per le cospicue e mirate commesse dell'amministrazione federale Usa.  Si pensi che nell'amministrazione pubblica italiana c'era un solo Elea 9003, al Ministero del tesoro, perché regalato da Adriano Olivetti.
Nel 1964, a causa delle condizioni finanziarie, un gruppo di controllo, composto da Fiat, Pirelli, Mediobanca, IMI e Centrale assunse il controllo. Valletta, presidente di Fiat, pur riconoscendo che la Olivetti era strutturalmente solida e in grado di risolvere i problemi, decise che nessuna fabbrica italiana poteva affrontare gli investimenti necessari  nell'elettronica, quindi venne ceduto il 75% della società alla General Elettric, confermandosi incompetente a costruire computer. Da qui  varie vicende fino alla cessione alla Honeywell.

Alcuni commentatori del tempo insistevano sul fatto che la crisi della Olivetti discendesse dall'acquisto, 1959, della Underwood, utilizzata come canale per allargare il mercato americano e per il deficit di bilancio della Divisione Elettronica. Per Gallino è un luogo comune, in quanto le difficoltà finanziarie furono molto esagerate dagli stessi attori che dovevano farvi fronte. Pesò molto il giudizio negativo di Valletta e dei membri del gruppo di investimento. Fiat non aveva mai gradito che la Olivetti, oltre ad offrire agli operai condizioni di lavoro, salari e servizi sociali migliori delle sue; assicurasse loro pure una libertà di azione sindacale ben maggiori. L'azienda di Ivrea doveva essere ricondotta nei ranghi. Si pensi che per rendere competitiva la Divisione Elettronica sarebbero bastati qualche centinaio di miliardi, diluiti in più anni, che era una somma modesta per un'economia che, in quegli anni, stava dissipando migliaia di miliardi nei disastri della chimica e dell'elettronica di consumo. Quello che mancò fu la capacità di afferrare l'importanza che l'informatica sarebbe andata assumendo nella produzione, nel lavoro, nella ricerca e in tutta l'organizzazione sociale.

Nel 1965 (seconda fase), ceduta la Divisione Elettronica, un gruppo di ingegneri, guidati da Pier Giorgio Perotto,  progettò una calcolatrice elettronica che alla mostra di New York fu dichiarata "the first desk top computer of the world". Il primo vero personal computer mai costruito in serie. Tra il 1966 e il 1971 furono fatti 44.000 esemplari.  L'errore della  Olivetti fu di ritenere di avere acquisito un notevole vantaggio sui concorrenti, per ciò che riguardava la micro-informatica. Doveva investire ancora in ricerca e sviluppo. L'attacco non le venne dalla Ibm o Apple, ma dai giapponesi, che con la loro produzione snella avevano raggiunto dei costi improponibili per l'azienda di Ivrea.
Nel 1978, con il PC Ibm-compatibili, ritornò al successo, anche se fu fiorente ma breve. Nel frattempo l'azienda era sta rilevata da Carlo De Benedetti. Nel 1982 uscì con il primo PC con sistema operativo PCOS, diverso dallo standard MS-DOS, ormai onnipresente, e fu  un mezzo fallimento.
Nel 1984 (terza fase), con il modello M-24 arrivò il successo, anche grazie all'alleanza con AT&T, e per alcuni anni le vendite dei PC Olivetti furono al sommo delle classifiche europee.
Nel 1990 Olivetti incontra difficoltà sul mercato, per la riduzione dei margini di profitto. La strategie della nuova proprietà fu quella di diventare un assemblatore. In pratica tutti i componenti venivano comprati all'esterno. Mancava quel valore aggiunto derivante da una propria autonoma innovazione tecnologica.
Nel 1996 Colaninno, subentrato a Carlo De Benedetti, trasformò la Olivetti in un contenitore finanziario. Il suo principale contenuto sarebbe stata la Telecom. L'uscita dalla produzione fu ratificata nel 1997. L'informatica italiana era finita.
12 marzo 2003 il marchio Olivetti venne cancellato dal registro delle imprese italiane quotate in borsa ad opera di Marco Tronchetti Provera. Aveva bisogno di accorciare le catene di società finanziarie che controllano la Telecom. La Olivetti era un anello superfluo.
Storia di un'eccellenza italiana cancellata da una politica inesistente e affarista e da una finanza senza scrupoli, che della produzione non sa che farsene.  Con la Olivetti non solo si è persa un'azienda che aveva fatto onore all'Italia per la sua eccellenza, ma che aveva una meta: il lavoro per la persona. 
Oggi sono poche le aziende che percorrono questa strada e sono aziende, guarda caso, di eccellenza, dove la principale risorsa rimane il lavoratore. Si veda il caso della ditta ELICA, prima azienda italiana e quarta nel mondo, dopo Google, Coca Cola e Microsoft nella classifica "Great Place to Work"Elica.
           




martedì 15 febbraio 2011

NON SOLO PAROLE

Nel post "Giochi di parole", relativo all'incontro Fiat-Governo, abbiamo voluto evidenziare alcuni aspetti circa i tre attori importanti delle relazioni industriali: Governo, impresa e sindacati. Del sindacato avremo modo di parlarne in seguito. Abbiamo sostenuto che siamo difronte ad un Governo debole e che non è stato capace di presentare uno stralcio di politica di sviluppo industriale. In pratica, al di là della promessa della riforma degli incentivi alle imprese, il pernio del loro progetto è sulla riforma di tre articoli della Costituzione. Ora, davanti ad una situazione di emergenza, nella quale si dovrebbe spingere, con urgenza, per la ripresa industriale, si propone un progetto che ha tempi estremamente lunghi e dall'esito non scontato. In Inghilterra, invece, il governo conservatore si è preoccupato che non venisse meno il flusso di finanziamenti alle imprese, in particolare alle medie e piccole il governo inglese ottiene i soldi. Non solo, ma le banche concederanno nel 2011 "dieci miliardi di sterline in più rispetto al piano originariamente previsto, con una crescita del 15%, passando da 66 a 76 miliardi, il che porterebbe il totale erogato a 190 miliardi (Sole-24 Ore)".

Per quanto riguarda Marchionne, invece, ci si atteniamo esclusivamente ad alcune considerazioni fatte da Lorenzo Guerriero, presidente Manageritalia, associazione che raccoglie oltre 23.000 dirigenti del terziario sparsi in almeno 9.000 aziende. In pratica la voce dei tanti manager di piccole e medie imprese, dal commercio al terziario avanzato manager italiani contro Marchionne.  Anticipiamo solo un breve stralcio dell'intervista per poi lasciare a chi ha tempo e voglia di leggersela per intero ( l'Italia ha bisogno di bravi manager): "soprattutto non capisco questo stillicidio di minacce, strategie non dichiarate, incomprensioni volute o meno che, se fossero vere, vedrebbero il nostro Paese perdere, per quanto riguarda il gruppo Fiat, del tutto anche il ruolo di testa, o meglio, di centro decisionale, quella parte a più alto valore aggiunto dove si fa la differenza, dove lavorano ingegneri, progettisti, designer, esperti di marketing e di strategie [...] E noi, oggi, dopo averla sostenuta per anni, lasciamo scappare la Fiat proprio quando può darci una mano a cavalcare il futuro? Questa sarebbe la dimostrazione che Marchionne non è un 'bravo' manager, piuttosto un manager bravo a sfruttare al meglio le momentanee opportunità dei mercati per produrre profitto, ma incapace di mettere in campo la ricerca manageriale di creatività, innovazione e produttività, l'unica in grado di sostituire business a basso valore con altri ad alto valore aggiunto e garantire un futuro all'azienda e all'intorno sociale di riferimento". 

Ci premeva evidenziare i due passaggi dell'intervista, perché avevamo avuto la sensazione di aver espresso giudizi fin troppo severi verso l'a.d della Fiat, ma dopo aver letto l'intervista ci siamo tranquillizzati. Noi non pensiamo che Marchionne non sia un ottimo manager, tutt'altro, ma solo che è un manager solo per gli azionisti. La governabilità e le nuove relazioni industriali si chiedono e si ottengono se c'è un reciproco interesse e, soprattutto, se i giocatori giocano tutti a carte scoperte.


lunedì 14 febbraio 2011

GIOCHI DI PAROLE

Rimane forte la sensazione che la Fiat sia uscita vincente dall'incontro con il Governo, visto che, a quanto pare, non è stato presentato un piano industriale, ma la certezza che abbia intenzioni serie è basata solo sul fatto che si è impegnata a investire 20 miliardi di euro fino al 2014  incontro Governo-Fiat. Certo, rimane difficile pensare che si possano investire così tanti soldi per poi andarsene via. Caso mai  sorge il dubbio che l'investimento sia slegato dalla decisione di trasportare le sede decisionale negli Usa, dichiarazioni post-incontro fiat-governo, e che sia un investimento dovuto al solo raggiungimento del target prefissato. Sia i sindacati firmatari dell'accordo che il Governo basano la loro fiducia solo sull'investimento e non sembrano preoccupati che a fronte di quest'ultimo non si accompagni un benché minimo stralcio di strategia e/o politica industriale. 
 Continuo a non capire che cosa si intenda Marchionne per governabilità e nuove relazioni industriali. Forse che i lavoratori debbano rinunciare ai diritti acquisiti? Oppure si intende un nuovo modo di porsi in termini di rapporti di gestione? Perché si continua a stare sul generico e non si specificano certe strategie? intervista al ministro Romani. Si può ottenere governabilità in due modi: in modo autoritario, dove uno decide e gli altri ubbidiscono; oppure,  si stabiliscono delle regole, dei traguardi condivisi e, insieme, ci si impegna a  raggiungerli, assumendone tutti oneri ed onori. Non è difficile intuire che nel primo caso il dissenso dei lavoratori si manifesterebbe sotto forma di scioperi e assenteismo. Perché Marchionne non presenta un piano industriale al Governo e ai sindacati assieme? Nelle interviste del dopo incontro sembra trasparire nei responsabili di Governo una sorta di "accontentiamoci...va bene così". Il dubbio è che la Fiat tenda ad avere le mani libere di poter "anche" decidere di non fare gli investimenti promessi, trovando poi scuse future plausibili di mancata governabilità o di mancato impegno degli accordi presi. E ciò obbligherebbe il Governo ad un intervento straordinario a salvaguardia dei lavoratori e del lavoro, addossando allo Stato ciò che doveva essere impegno di Fiat. I piani industriali sono articolati in modo tale che venga analizzato ogni aspetto che concorra al raggiungimento degli obiettivi stabiliti, creando anche dei parametri di controllo per la verifica periodica dei traguardi intermedi. Perché questo Marchionne non lo pubblicizza come ha fatto con la governabilità? Perché il Governo non si è fatto carico di saperlo e di farlo sapere ai sindacati? Si fa forte la certezza che per battere i tedeschi, come sostiene il ministro Romani, non basta investire 20 miliardi di euro, ma servono tante altre cose ed in particolare il coinvolgimento dei lavoratori nel progetto. 

Una cosa è certa, comunque, che se la Fiom vuole di nuovo essere parte importante di un progetto industriale futuro, deve rifarsi una veste nuova. Landini chiama in causa la Germania, con la Volkswagen e la Opel, ma sa benissimo che in quel paese esistono rapporti co-gestionali fra le imprese e i sindacati, Landini-fiom : incontro fiat-governo. I risultati di tali rapporti sono eccezionali. Se porta ad esempio quelle aziende, è doveroso ricordargli che alla volkswagen sono 33 anni che non fanno scioperi; che in 13 ore hanno fatto un accordo che in Italia è costato la scissione degli operai e dei sindacati. Si può concordare con lui che ci vorrebbe un Governo forte, che sapesse dare forti indirizzi politici, come la Merkel, che, a margine dell'accordo volkswagen, raccomandò alle aziende di gestire l'orario di lavoro a misura della famiglia, evitandole di doverlo fare con  un intervento a livello governativo.  Per un progetto di tale portata tutti gli attori interessati devono dare il loro contributo, governo, impresa, sindacati e lavoratori, ma per fare ciò è necessario che si rivedano le relazioni industriali alla luce della partecipazione/cooperazione dei lavoratori. Senza un effettivo coinvolgimento è difficile parlare di governabilità e qualità. Ma per fare ciò, sia imprese che sindacati, devono spogliarsi del vecchio.   

domenica 13 febbraio 2011

LA MAGIA DEI NUMERI

Ho appena terminato di leggere il libro di Enzo Mattina, Elogio della precarietà, che, pur non condividendo molte delle sue analisi, ritengo un testo importante da leggere per chi è interessato allo studio del rapporto lavoro flessibile/precarietà e ciò al di là del provocatorio titolo.

Una delle cose che maggiormente mi ha colpito è l'enorme differenza statistica, fra i maggiori studiosi, del rapporto lavoro a tempo indeterminato e lavoro  atipico. Sembrerebbe, in prima analisi, una cosa da niente, invece è su certi dati che gli studiosi considerano la precarietà come "effettiva" o più "percepita" e, di conseguenza e a seconda dei propri pregiudizi, ognuno sostiene la sua tesi. 

Per Pietro Ichino, ma anche per Gallino, i lavoratori che portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno si aggirano sui 9 milioni. Per Tito Boeri e Pietro Garibaldi le stime si aggirano intorno ai 4,5 milioni di persone, mentre, per Enzo Mattina, non superano i 2,719 milioni. Quest'ultimo prende  e crede nei dati  del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, Segretariato generale, coordinamento delle attività statistiche, pubblicato nel 2007. Naturalmente a questi dati, anche se non fanno parte dei lavoratori, dovremmo aggiungerci il 29,8 per cento dei giovani NEET (se lo sono è perché l'eccessiva flessibilità li relega in tale condizione). Non voglio discutere sui numeri, specie se dati dal Ministero del Lavoro, al quale non credo per una convinzione di base, perché ha necessità di manipolare i dati per aggiustare i suoi interventi ma, utilizzando un famoso titolo di un libro di Gallino, osservo: quasi tre milioni vi sembran pochi? 

Il ministro Sacconi, di recente, si vantava che l'Italia avesse un tasso di disoccupazione al di sotto della media Ocse (2009), ma si dimenticava  di aggiungere che abbiamo la più alta percentuale di giovani NEET in Europa; ometteva di dire che l'Italia ha il drammatico e grottesco privilegio, nella fascia d'età 15-24, di avere un tasso di attività del 29,1 per cento, un'occupazione del 21,7 per cento e una disoccupazione del 24,4 per cento. Se compariamo questi dati con quelli Ocse, noteremo che il tasso di attività è esattamente la meta (Ocse = 48,5 per cento); il tasso di disoccupazione è 9 punti percentuali superiore ( Ocse = 16,4 per cento); e il tasso di occupazione è circa al metà (Ocse = 40,6 per cento). In pratica i giovani sono dimenticati! E, cosa ancor più grave, l'Italia, settima potenza economica, ha l'onore di essere terz'ultima dei paesi Ocse ( solo la repubblica Slovacca, l'Ungheria e la Spagna sono peggiori), senza contare che ha un particolare primato e cioè che la percentuale degli occupati è inferiore a quella dei disoccupati.

Si dimenticava o ometteva, il Ministro Sacconi, che la disoccupazione di lungo termine è fra le peggiori dei paesi Ocse ( 50 per cento), basti pensare che negli Usa è del 10 per cento. Inoltre i salari italiani sono agli ultimi posti tra quelli dei paesi avanzati. Dimenticanza o omissione? Nessuna delle due! E' solo "adattamento politico dei dati"! E' per questo che non credo, come Mattina, ai dati ufficiali e ritengo di credere a degli studiosi seri come Boeri, Ichino, Gallino e Garibaldi.

Un'altra magia dei numeri è la comparazione fra due insigni sociologi italiani, che ammiro in modo particolare: Aris Accornero, per il quale la precarietà è più percepita che reale, e Luciano Gallino, per il quale la precarietà è assolutamente reale. In S. Precario lavora per noi, Accornero ritiene che è a causa di una eccessiva flessibilità e della mancanza di adeguate tutele che si crea il senso di percezione della precarietà, in quanto i lavori atipici non vanno oltre il 45 per  cento del totale dei lavori. Gallino, invece, sostiene che la precarietà è molto sentita e reale, basti vedere che il lavoro ritenuto socialmente sicuro, il tempo indeterminato, è solo il 55 per cento. Entrambi danno le stesse percentuali, ma le guardano e le leggono con sensibilità diverse.

Due parole a proposito delle percentuali. Premetto che per una mia deficienza matematica ho una certa ostilità verso la statistica, pur ritenendola fondamentale per leggere e comparare i dati, ma a volte mi da la sensazione che liberi la coscienza dal conoscere a fondo la situazione. Parlare in "percentuale" è come una sorta di neutralizzazione dei sentimenti: si possono dire le cose, dare dati, analizzare le tabelle con un certo distacco e con una certa freddezza.  Un esempio per dare il senso di ciò che sostengo.

Ogni anno l'Ocse redige statistiche e compila tabelle sui tassi di disoccupazione, per fasce di età e per genere; per grado di studio e per durata ecc. Al termine, stila un sommario dove spiega cosa è successo, cosa si prevede, quali sono stati gli interventi nel corso dell'anno e quali dovrebbero essere. Ora, relativamente al 2009 scriveva : "nel corso degli ultimi due anni, fino al primo trimestre del 2010, l'occupazione è calata del 2,1 per cento nell'area Ocse e il tasso di disoccupazione è aumentato di poco più del 50 per cento fino a raggiungere l'8,5 per cento, ossia 17 milioni di nuovi disoccupati. Inoltre, applicando un metodo di misurazione più ampio che comprenda i lavoratori che non sono abbastanza attivi nella ricerca di lavoro e sottoccupati, si ottiene un risultato circa due volte superiore al tasso ufficiale di disoccupazione. " Conclude dicendo che tale situazione dovrebbe protrarsi fino al 2011.

Quando si parla di tasso di disoccupazione ci si dimentica di chi non è attivo nella ricerca del nuovo lavoro ( perché?), chi è scoraggiato e chi è sottoccupato. Ma la cosa che mi preme evidenziare sono i numeri: una leggera e impercettibile variazione percentuale porta al risultato di  17 milioni di nuovi disoccupati + 17 milioni fra sottoccupati, scoraggiati e non attivi nella ricerca del lavoro. Cifre da capogiro! 34 milioni di nuovi disoccupati e precari...pari alla popolazione del Belgio, Olanda e Norvegia! Quando Karl Marx a proposito dei disoccupati, parlava di "esercito di riserva", non poteva pensare che dopo 100 anni l'esercito si sarebbe trasformato in "nazioni di riserva". Al di là di ciò che pensavo della matematica, quest'ultima ha un suo linguaggio e se utilizzata in modo giusto da il senso delle cose.




sabato 12 febbraio 2011

LA GLOBALIZZAZIONE E I "NUOVI SCHIAVI"

Si legge in Gallino "la flessibilità è figlia primogenita della globalizzazione [...]  Essendo elemento centrale della globalizzazione, il superamento della flessibilità dell'occupazione e della precarietà ad essa collegata è un problema che potrà venire affrontato soltanto con una politica del lavoro globale [...] attraverso leggi e accordi internazionali".

Non possiamo esimerci dal constatare quali effetti perversi possa avere la nuova economia globale o una finanza senza scrupoli e incontrollata e, soprattutto, gli investimenti mirati allo sfruttamento. Noi ci preoccupiamo dei nostri giovani o meno giovani colpiti dalla precarietà, delle loro ansie, dell'incertezza di crearsi un futuro, una famiglia, una vita, ma non possiamo pensare di risolvere i problemi se non guardando anche al nostro vicino globale, soprattutto se a questi viene "estirpata la vita".

Molto toccante e scioccante è il testo di Kevin Bales "I nuovi schiavi" edito da Feltrinelli e del quale riporteremo degli stralci, con l'ambizioso desiderio di coinvolgere più persone possibili a leggerlo.

Scrive Bales "Tre sono i fattori che hanno provocato il passaggio a una schiavitù di tipo nuovo e la trasformazione di quella tradizionale. 1) L'esplosione demografica, che ha inondato di milioni di individui poveri e vulnerabili i mercati del lavoro mondiali. 2) La rivoluzione della globalizzazione economica e della modernizzazione dell'agricoltura, che ha spossessato i contadini poveri, esponendoli al pericolo della schiavitù. 3) Il caos di avidità, violenza e corruzione prodotto dal cambiamento economico in molti paesi in via di sviluppo, un cambiamento che sta distruggendo le regole sociali e i tradizionali vincoli di responsabilità che avrebbero potuto fungere da protezione nei confronti dei potenziali schiavi.


Oggi, nel mondo, le condizioni sono favorevoli alla schiavitù, facendola evolvere e trasformare, esplodendo ogni volta che se ne verificano le cause e i due elementi fondamentali, il profitto e la violenza, combinate insieme con i fattori sopra esposti, fanno emergere i nuovi tip di schiavitù.


Anche in europa, nel periodo della Rivoluzione industriale, si ebbe un'esplosione demografica e un sovvertimento e ciò rese liberi alcuni esseri umani, mentre altri furono utilizzati come merce di poco conto, quasi "usa e getta". La stessa cosa sta succedendo oggi nei paesi in via di sviluppo.  


L'impresa globale, a causa di una concorrenza sleale, perché basata sullo sfruttamento di condizioni non eticamente e socialmente corrette, è obbligata a utilizzare materie prime sempre meno costose o affidare le varie lavorazioni a mano d'opera più a buon mercato, per cui si spostano in paesi dove ciò gli è permesso, creando un circolo vizioso che sempre più si fa sprofondare a condizioni di lavoro indegne. La  "morale dello struzzo" delle imprese che si sentono portatrici di benessere nei paesi in via di sviluppo non consente loro di vedere le reali condizioni causate. In India, ad esempio, "ci sono tra i 65 e i 100 milioni di bambini in età inferiore ai quattordici anni che lavorano otto ore al giorno [...] Ma c'è di peggio: circa 15 milioni di questi bambini non sono operai, bensì schiavi. E i bambini schiavi sono meno visibili; prigionieri della schiavitù da debito". Eppure esistono casi, come la Gap o la Nike, che dietro la pressione di un pubblico consapevole, hanno rivisto le loro posizioni, ma è necessario anche l'intervento dei Governi o di ogni tipo di istituzione responsabile. I beni  e servizi prodotti da schiavi affluiscono sui mercati e fanno parte, anche se in piccola parte, di ciò che compriamo. Dobbiamo diventare consapevoli in che misura partecipiamo a sradicare la schiavitù, o in che misura, attraverso la "morale dello struzzo" si vuole far finta di non sapere perché, in qualche modo, ci conviene.


Bales illustra in modo chiaro, seppur drammatico, la combinazione di fattori che hanno fatto aumentare la schiavitù in diversi paesi in via di sviluppo "Sviluppo significa che i valori che dominano le economie occidentali sono stati inoculati nei paesi in via di sviluppo. L'idea che il profitto si giustifichi da se, che il successo sia l'anticamera della rispettabilità, porta a sviluppare nuove imprese e di conseguenza a ignorare il costo umano [...] Quando chi governa si mette a dare la caccia all'immensa ricchezza potenziale dell'economia globale, l'ordine pubblico va in pezzi [...] Non c'è paese che non conosca una qualche forma di corruzione [...] Le strutture di potere esistenti vengono sovvertite ed esplodono le lotte per riempire il vuoto di potere. Economie un tempo stabili, anche se povere, vengono rimpiazzate da uno sviluppo selvaggio e dallo sfruttamento. E [...] in assenza di legge, l'avidità può prevalere sui diritti umani".



Prima di ogni lotta, sanzione o campagna per l'abolizione della schiavitù, diventa necessario diventare consapevoli che i "diritti umani sono preminenti rispetto ai diritti di proprietà"; e che la "libertà degli esseri umani viene prima del libero scambio delle merci" e, soprattutto, dobbiamo renderci conto, per capirne la gravità, che lo "schiavo non è altro che un merce". Ricordiamo perfettamente quanto siano state efficaci le sanzioni contro il Sudafrica per combattere l'apartheid e ci meraviglia che organizzazioni come il Wto e il Fondo monetario internazionale, che hanno il controllo di governi, affari e industrie di tutto il mondo non facciano niente in favore dei diritti umani, tanto da far scrivere a Greider" I termini di scambio sono di solito concepiti come accordi commerciali, eppure sono anche un'implicita dichiarazione di valori morali. Nei termini attuali, il sistema globale privilegia la proprietà a scapito della vita umana. Quando una nazione come la Cina saccheggia la proprietà del capitale, rapinando i diritti d'autore, film o tecnologie, gli altri paesi si mobilitano per impedirle di continuare e sono pronti a imporre sanzioni e pene pecuniarie sugli scambi commerciali del paese trasgressore. Quando a essere rapinate sono le vite umane...ai trasgressori non succede niente perché, in base al senso di coscienza del libero mercato, il reato non sussiste".


Magari è più facile che Stati e imprese vengano puniti per aver "falsificato un cd di Michael Jackson che per aver impiegato manodopera schiava". E' necessario che ognuno di noi prenda parte alla lotta contro la schiavitù, che ci sia una mobilitazione generale per obbligare Stati e Governi ad emanare leggi adeguate e controlli ferrei e, se necessario, a prendere provvedimenti forti nei confronti dei trasgressori, anche se ciò toglierà dai nostri mercati prodotti o servizi di cui facciamo uso, perché, come ci ricorda Bales "gli schiavi dei paesi in via di sviluppo sono disposti a tutto pur di ottenere la libertà, ma da soli non possono farcela. Divideranno con noi il loro sapere e la loro forza, ma noi dobbiamo dividere con loro le nostre risorse e il nostro potere. In caso diverso, ciò che chiamiamo 'mondo libero' continuerà a nutrirsi di schiavitù".



venerdì 11 febbraio 2011

IL CORAGGIO DI CAMBIARE

Non amo particolarmente Marchionne, che rappresenta ciò che di più vecchio possa esserci in un manager. Non amo i manager che guardano soprattutto agli azionisti e a i loro dividendi, in tipico stile americano e tanto diversi dai manager giapponesi o tedeschi. Soprattutto non lo amo per il suo modo di porsi, minaccia e ritratta, avendo cura di lasciare comunque in sospeso le cose, tanto perché rimanga nell'aria quel velo di possibile minaccia, ipotesi della Fiat in Usa. Se non vado errato , gli azionisti Fiat sono quelli che hanno avuto i maggiori dividendi, rispetto agli azionisti di altre fabbriche di automobili europee, pur avendo perso, su tale mercato, il 17 per cento di vendite. Ma, ad onor del vero, se il nostro italico, si fa per dire, manager rappresenta il vecchio, è affiancato da una politica completamente assente: si pensi solo al Ministero dello sviluppo economico, che è stato vacante per diversi mesi e poi, tanto per metterci qualcuno, si è optato per una persona che a Bruxelles si occupava di fare lobbying per Mediaset; oppure che con un ritardo di otto mesi sulla tabella di marcia presenta un piano per la crescita che è un eufemismo considerare solo un piccolo passo, accampando scuse dovute a problemi interni al partito di Governo. Beghe certamente più importanti delle strategie necessarie per rilanciare la crescita economica del paese. Un Governo serio e che si vanta di definirsi "del fare" dovrebbe inidirizzare, sostenere  e spingere le aziende italiane attraverso politiche di indirizzo e sviluppo economico. Dovrebbe, per primo, fare impresa, non foss'altro per il fatto di essere l'occupatore di ultima istanza.

Ma un pensiero particolare va anche ai nostri sindacati, che sanno di antico e di stantio come i due precedenti protagonisti, che non hanno saputo rinnovarsi, rimanendo arroccati nella difesa di chi ha il lavoro e dimenticandosi i milioni di precari. Se non li trovano nelle fabbriche, non sono capaci di studiare strategie di avvicinamento diverse, magari nei circoli di quartiere, oppure, perché no, nelle feste rionali, facendo incontri in cui vengono descritte le strategie "pensate", da sottoporre al vaglio della gente che lavora, per trasformarle in strategie "decise". Si troveranno sempre meno lavoratori in fabbrica, e molti di loro si allontaneranno sempre di più. Perderanno il vitale contatto con la gente, soprattutto le perderanno  le giovani generazioni. Dovranno sempre più operare nel mercato del lavoro, magari mappando le tipologie di lavoro; i lavoratori richiesti e i lavori disponibili; far incontrare la domanda e l'offerta; facilitare il compito dei giovani, magari indirizzandoli nelle scelte. Dovranno studiare strategie nuove per diventare visibili anche ai lavoratori che lavorano saltuariamente e facendo sentire la loro protezione. Leggo e sento molti giovani che lamentano la distanza dei sindacati, la loro latitanza, specie nelle piccole /medie aziende. Ho seguito per mesi un sito su facebook e il 70 per cento delle persone che avevano perso il posto si lamentavano dell'assenza o inconsistenza dei sindacati. Bisogna che il sindacato ripercorra la strada e abbandoni gli uffici. Dovrà darsi anche una veste nuova e, personalmente, non disdegnerei la co-gestione alla tedesca. Dovranno esserci poche e inderogabili regole, alle quali, tutti indistintamente, dovranno attenersi, ma sarà sempre più necessario guardare all'impresa, nella sua specificità. Non sarà sempre possibile stabilire regole nazionali, valide per ogni realtà, ma, da poche regole inderogabili, si dovrà scendere nelle varie diversità aziendali. Il sindacato avrà l'onere di essere l'organo di indirizzo per i delegati sindacali, qualora necessitino di suppporto; dovrà essere il controllore che le trattative non portino i salari al ribasso; dovrà supportare che non avvengano situazioni di dumping, dovrà dare il supporto necessario, qualora richiesto, nelle operazioni di co-gestione aziendale. Se non ci indirizzeremo verso un nuovo modo di porsi nella gestione delle aziende, sarà sempre più difficile fare la concorrenza a fabbriche dislocate in paesi in via di sviluppo, almeno fino a quando organi internazionali (Fmi, Omc ecc)  e i vari governi nazionali non intervengano a far rispettare le elementari norme di comportamento etico delle multinazionali, che operano in paesi in via di sviluppo e che accettano, anzi, benedicono la mancanza di quelle tutele che violano i più elementari diritti dell'uomo.

Certo, dovremo cambiare anche noi lavoratori e dovremo renderci conto che il lavoro sta cambiando, che il mondo sta cambiando, e che i trent'anni gloriosi, in cui si era raggiunto la quasi-occupazione completa, non ci sono più. Oggi il capitale ha interesse a contrapporre i due terzi dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo, con stipendi da fame e tutele inesistenti, al terzo dei lavoratori dei paesi occidentali, che hanno stipendi e tutele migliori. Ciò porta i lavoratori occidentali ad essere più "costosi", quindi, per una elementare legge economica, vengono sempre meno richiesti nel lavoro.  Per contrapporre i minori costi della parte più povera del mondo, non ci rimane che puntare sulla qualità e su lavori con grande spessore qualitativo. Un elemento fondamentale per lavorare sulla qualità è la sicurezza del posto di lavoro, perché è difficile chiedere qualità ad un lavoratore che sa di lavorare solo qualche mese o qualche giorno. Ma non può esserci, oggi, sicurezza del posto di lavoro se non c'è coinvolgimento, partecipativamente o cooperativamente, alla gestione delle imprese. Ma è difficile chiedere partecipazione quando c'è chi decide e c'è chi ubbidisce. Partecipazione vuol dire condividere, conoscere e decidere insieme. Insieme si potrà anche decidere di ridurre lo stipendio nei momenti di crisi o aumentarlo nei momenti di crescita; insieme si possono studiare strategie di crescita che coinvolgano tutti e tutti saranno interessati al raggiungimento degli obiettivi. L'accordo firmato alla volkswagen ne è la dimostrazione, visto che stanno preparando l'entrata dei lavoratori come azionisti. In termini pratici vuol dire che i lavoratori, garantiti dalla rappresentanza sindacale nell'organo di controllo dell'operato del manager e, inoltre  partecipa all'elezione del management, avranno tutto l'interesse affinchè l'azienda vada bene; decideranno insieme ciò che è megliofare e se saranno necessari dei sacrifici. certo è che al momento attuale e con la ditta che sta lavorando bene, ogni lavoratore si troverebbe in tasca un dividendo di 2000 euro/anno. Allora l'incidenza della manodopera non sarà più così  onerosa, come continuano a farci credere. Insieme è possibile raggiungere traguardi molto più ambiziosi, perché l'insieme è superiore alla somma delle singole parti. Ai giovani dobbiamo dare una speranza nel futuro ed è a loro che dobbiamo guardare ed è loro che dobbiamo coinvolgere, prima ancora che diventino vecchi senza essersi realizzati.

Un obiettivo importante che dovrà essere raggiunto, dovrà essere quello di permettere ad ogni lavoratore di "portare al lavoro se stessi" (Florida) Certo il lavoro da fare è notevole, forse perfino utopico, d'altronde però, come disse una voltaVictor Hugo "L'utopia è la verità di domani".






mercoledì 9 febbraio 2011

LE IMPRESE E IL LAVORO FLESSIBILE

I due scopi principali per cui, da parte delle imprese, si è fatta pressante la richiesta di lavoro flessibile riguarda la riduzione del costo diretto e indiretto del lavoro per reggere alla competizione internazionale e l'adattabilità dell'azienda al comportamento di tutte le altre aziende, a monte e a valle, della stessa, in termini di commesse, ordinativi, forniture, consegne  e prezzi, considerando che ormai c'è come una connessione indivisibile con tutte le altre aziende.

La riduzione del costo del lavoro viene perseguita attraverso, o applicando alla concezione stessa della forza-lavoro, un paio d principi di gestione aziendale. Il primo principio di ristrutturazione è il just-in-time, cioè la materie prime, i semilavorati e i servizi di supporto arrivano alla produzione al momento preciso in cui servono per essere utilizzati. Ciò ha permesso l'eliminazione degli stoccaggi e dei grossi magazzini, riducendo enormemente gli spazi rispetto alle fabbriche taylor-fordiste, quindi riducendo le superfici adibite, la movimentazione dei materiali e e le persone che vi erano adibite.

Il secondo principio di ristrutturazione riguarda la produzione solo su domanda. All'epoca delle fabbriche taylor-fordiste si facevano piani di vendita e su questi si impostavano i piani di produzione, che venivano rivisti ogni tre-sei mesi. Oggi le previsioni di mercato si basano soprattutto sulle quantità e non sui modelli di prodotto, per cui si fanno delle possibili stime dallo storico venduto l'anno prima, come base di partenza, ma la produzione effettiva avviene maggiormente su commessa e comunque la vita dell'azienda è legata non più alla produzione ma al suo valore finanziario. 

Sia il primo che il secondo principio di ristrutturazione sono resi possibili dalle tecnologie dell'informazione, in quanto permettono di raccogliere in tempo reale gli ordini, che saranno trasformati rapidamente in ordini ai fornitori e in commesse di produzione.

Visto il successo di questi due principi, nelle aziende si è  fatta strada l'idea di applicarli anche alla forza-lavoro. Viene regolata la forza-lavoro in modo tale che le prestazioni siano erogate, quindi pagate, solo se  necessarie ed effettivamente utilizzate. Il lavoratore flessibile è colui che viene occupato solo a fronte d'una domanda effettiva, giusto per quel tempo e pagato solo per quel tempo.

La fabbrica snella è divenuta così snella nell'economia finanziaria per cui anche l'occupazione di risorse umane è un sovrappeso. E' dall'inflessibile perseguimento delle aziende all'imperativo di non assumere che nascono i lavori flessibili, la miriade di lavori irregolari e i lavoratori autonomi che, di fatto, sono dei dipendenti. La richiesta  della flessibilità dell'occupazione, combinata con la flessibilità della prestazione, è sempre richiesta dal fatto che la produzione di beni e servizi è stata scomposta, riorganizzata e ridistribuita in tutto il mondo su scala globale. Ogni funzione della produzione, dalla ricerca e sviluppo alla progettazione, dall'acquisto di materie prime e semilavorati all'assemblaggio, dal confezionamento al trasporto ecc. può essere distribuito in ogni parte del mondo e non è più necessario che sia parte integrante dell'azienda. La frammentazione funzionale e spaziale del processo produttivo è stata perseguita per diversi motivi: innanzi tutto per mettere in difficoltà i sindacati, in quanto, essendo le unità produttive piccole e distanziate, è difficile poter organizzare i lavoratori e creare una reale opposizione nei confronti delle direzioni per qualsiasi aspetto delle condizioni di lavoro; se le componenti della catena produttiva sono di dimensioni piccole è più facile valutarne i risultati sotto il profilo industriale; vi è più facilità nella sostituzione di una piccola entità nel caso di non rispondenza agli standard qualitativi, delle consegna o del mantenimento dei prezzi; è più facile reperire mano d'opera locale, a minor prezzo, senza limiti d'orario, agevolazioni fiscali e doganali, magari con presenza sindacale imitata o assente; infine, ma non per importanza, la facilità di nascondere l'effettivo imponibile della capogruppo attraverso sistemi di ingegneria fiscale.

Attraverso questo sistema a rete si distribuisce il rischio di impresa, cioè ognuna delle piccole aziende deve avere la capacità di adattarsi rapidamente alle necessità delle altre aziende con cui è collegata. E' per questo che la flessibilità della produzione tende a diventare per ogni impresa una necessità. La sempre maggior difficoltà a pianificare le vendite, quindi ad avere certezze di produzione, obbliga queste aziende a richiedere sempre più lavori flessibili e ad assumere sempre meno. In pratica dividendo e suddividendo sempre di più le funzioni produttive, ogni azienda della rete scarica sulle altre la gestione e le conseguenze della flessibilità produttiva, per cui tutte le imprese fanno il possibile per mantenersi il minimo di lavoratori e utilizzare quelli eventualmente utili per il tempo strettamente necessario, utilizzando sempre più flessibilità occupazionale e flessibilità prestazionale.

Le aziende, attraverso i lavori flessibili, non si pongono sempre meno il problema di reagire alla variabilità del mercato attraverso le innovazioni del prodotto o del processo produttivo, o rinnovando le strategie di mercato o aumentando gli investimenti in ricerca e sviluppo, ma gettano sulle spalle dei dipendenti gli effetti di tale variabilità, creando quello stato d'ansia e di incertezza di chi sa che con il lavoro flessibile devi sempre ripartire da zero. Senza considerare che la flessibilità del lavoro permette la frammentazione delle classi lavoratrici, con la conseguente frammentazione e indebolimento delle rappresentanze sindacali. Naturalmente le donne, come sempre, sono quelle che maggiormente sono penalizzate dalle crescenti richieste di lavoro flessibile.

Un'altra conseguenza del alvoro flessibile è la riduzione del lavoro stabile e ben retribuito a sole poche ed elette persone, intorno alle quali ruotano i tre quarti di lavoratori temporanei, precari o in affitto, rendendo poco credibile il fatto che il lavoro flessibile sia l'anticamera di un futuro lavoro a tempo indeterminato. Come poco credibile è l'attribuzione al lavoro flessibile di finalità di sviluppo.

lunedì 7 febbraio 2011

MARCHIONNE E L'ARTE DEL RICATTO

Ormai sono i soliti giochetti di chi sa  di avere il "potere", ma tenta di gestirlo come l'abbigliamento. Normalissimi maglioncini scuri, naturalmente di cachemire, che danno il senso della persona della porta accanto, dell'uomo pratico, lontano un miglio dai manager ingessati e lucidi di vecchio stampo. Rappresenta il nuovo, con una buona dose di cultura , che non disdegna di farlo vedere: difficile che in ogni suo discorso non citi grandi pensatori, come Hegel, come all'ultimo meeting di Comunione e Liberazione o quando ha tenuto il primo discorso alla Crysler. 


Al giornalista che gli chiedeva se ritenesse giusto il suo compenso, uno dei più elevati in Europa, in rapporto allo stipendio di un operaio, ci teneva a rimarcare che Lui lavorava 18 ore al giorno e che provassero i lavoratori a mantenere i suoi ritmi. Nessuno, credo, possa mettere in dubbio le qualità del nostro a.d. italo-canadese, che tenta di costruirsi un volto umano, che parla di "aprirsi alla globalizzazione", che parla di mega-strategie, ma anche di essere andato a vedere gli spogliatoi degli operai a Mirafiori, e, trovatili indecenti, li ha fatti risistemare. In effetti è difficile in 18 ore occuparsi di tutto. Per tenere certi ritmi sono necessari stimoli particolari: il guadagno, il desiderio di potere, l'ambizione, la soddisfazione del proprio lavoro e, soprattutto, come rimarcava a Rimini, ospite di comunione e Liberazione, per "costruire il paese che vogliamo lasciare alle prossime generazioni". Ed è appunto di questo che vorremmo parlare. Quale paese?


Quello che tiene sotto pressione con i suoi continui ricatti? Fino ad oggi ha condizionato le scelte sia del Governo che dei lavoratori, minacciando di spostare la produzione in altri paesi. E abbiamo cercato di capirlo, perché, e ci dispiace, concordiamo con lui che in Italia i politici parlano male e lavorano peggio. Ma, per cortesia, non usiamo termini trionfalistici sulla nascita di "nuove relazioni industriali", come si è gongolato di dire in televisione il ministro Sacconi; oppure il faccione sorridente di Bonanni, che si affretta a presentarsi davanti alle telecamere per dire ai lavoratori che c'è un sindacato che lavora per il lavoro e per loro ed un altro che pensa solo a distruggere. Noi  siamo certi che il ministro Sacconi abbia letto il rapporto  che Alain Supiot, insieme a molti altri studiosi di altri paesi, ha redatto per la Commissione europea, Il futuro del lavoro e che sia in completo disaccordo circa le "nuove relazioni industriali"ivi descritte, altrimenti ci dovrebbe spiegare cosa intende per "relazioni industriali". E al buon Bonanni ci piace far presente che, pur essendosi svolto un referendum fra gli operai sotto la minaccia del ricatto di trasferire la produzione in altri paesi, la Fiom e gli altri "distruttori del lavoro" hanno ottenuto il 49 per cento. Non ci interessa, almeno in questo momento, il ricatto di Marchionne alla Confindustria, che per non perdere uno dei maggiori contribuenti, sta correndo a fare le modifiche richieste pur di riaverlo nelle loro fila. 


Tutto questo era ieri. Si è brindato al futuro; si è osannato il coraggio di sindacati che capiscono le esigenze della globalizzazione; la politica ha tirato un sospiro di sollievo, altrimenti ci sarebbe stato il baratro; le forze politiche si sono schierate pro o contro, addirittura divise, come il Pd, scommettendo sull'uomo venuto dal freddo. Si sono scritte pagine di giornali sui modi bruschi, talvolta rudi, ma decisi di chi è abituato a comandare, mettendo in risalto, però, la parola data sui maxi investimenti futuri. Però niente conoscenza sulle strategie; nessuna risposta sulla perdita di mercato in Europa. Niente! Ci siamo fidati.


Ieri, tanto per tenere ancora sotto ricatto, quindi tenere caldi i propri interlocutori per ulteriori concessioni da ottenere, dichiara il possibile trasferimento a Detroit della Fiat. Il sindaco di Torino, Chiamparino, è nel panico e attende il ritorno di Marchionne per sapere esattamente come stanno le cose. Forse lo minaccerà di non giocarci più a carte! Il Governo, per voce del ministro Sacconi è rassegnato e, nell'incontro richiesto, chiederà che a Torino rimanga "almeno il centro direzionale europeo".  D'altronde Tremonti continua a dire che non ci sono soldi per una politica industriale adeguata e solo l'Italia ha potuto tenere vacante il ministero dello Sviluppo economico per dei mesi, quando ce ne sarebbe stato bisogno. Però il ministro ci ha tranquillizzati, perché ha garantito che l'esecutivo sta seguendo con attenzione l'evolversi delle cose e, comunque, la Fiat dovrà rimanere una ".multinazionale italiana". Sinceramente, se l'ha detto il ministro Romani, non vedo perché ci si debba preoccupare. La famiglia Agnelli, attraverso Maria Sole e Elkann, sminuisono la portata delle dichiarazioni del loro "conduttore", sapendo, comunque, che poco potranno fare per contrastarlo.  Anzi, dovranno preoccuparsi di mantenere il nome degli Agnelli in una fabbrica vanto dell'Italia e della loro famiglia. Forse, perché no, ricordarsi che l'Italia ha avuto dalla Fiat, ma la Fiat ha avuto tanto dall'Italia.

Continua la storia della distruzione dell'Italia industriale denunciata da Gallino in un suo libro e, se questa volta il "conduttore" è un ottimo manager, la politica la fa ancora da padrona a livello di incapacità e preveggenza. Anzi, non la fa neanche da padrona, questa volta deve dividere lo scettro con mediocri e litigiosi sindacalisti ( Bourdieu, che agogna un Movimento sindacale internazionale, siamo certi che non abbia una profonda conoscenza dei nostri sindacati).

Ma di Marchionne ci piace ricordare, parola per parola, ciò che ha detto durante l'incontro al meeting di Comunione e Liberazione "Il sistema italiano deve superare definitivamente il conflitto 'operai-padrone', ma soprattutto deve innovarsi, aprirsi alla globalizzazione, capire che non si può investire se i lavoratori non tengono fermi gli impegni assunti. Fino a quando non ci lasciamo alle spalle i vecchi schemi non ci sarà spazio per vedere nuovi orizzonti". Poi, riferendosi alle contestazioni seguite al licenziamento dei tre operai di Melfi, dice"Quella alla quale stiamo assistendo in questi giorni è la contrapposizione tra due modelli: uno che si ostina a proteggere il passato, l'altro che guarda avanti [...] Quello di cui c'è bisogno è un patto sociale per condividere impegni e sacrifici e dare al paese la possibilità di andare avanti, per costruire il paese che vogliamo lasciare alle prossime generazioni [...] Troppo spesso l'elogio del cambiamento si ferma  sulla soglia di casa. Dobbiamo scegliere il cambiamento che vogliamo, il nostro o quello dei nostri vicini di casa". Poi, citando Hegel, continua "La libertà è la 'prima garanzia che dobbiamo conquistarci' e la libertà [...] vuol dire anche trovare il coraggio per abbandonare modelli del passato, poiché le strade comode e rassicuranti non portano da nessuna parte".


Vogliamo concludere evidenziando quattro cose: la prima, che i lavoratori hanno sempre agognato un vero cambiamento, a partire dalla Rivoluzione industriale fino ai giorni nostri, ma dipende da che parte lo si vuol vedere o indirizzare e sempre si sono addossati i sacrifici; la seconda, che i lavoratori non hanno mai avuto la strada comoda e rassicurante e sarebbero ben felici di abbandonare "quel modello del passato"; la terza, che è lui che sta concedendo il cambiamento ai "nostri vicini di casa", spostando il centro direzionale a Detroit; la quarta, che sono i manager come Marchionne che sanno d'antico, anche se al posto della giacca e cravatta  indossano un semplice maglione di cachimire.