sabato 5 febbraio 2011

WELFARE: "un diritto di proprietà sociale?"

Secondo Zygmund Bauman il concetto di welfare state si basa sull'idea "che lo Stato abbia l'obbligo e il dovere di garantire il 'benessere' e non soltanto la mera sopravvivenza, a tutti i cittadini, ovvero un'esistenza dignitosa, secondo gli standard di una data società in una determinata epoca". La descrizione dello Stato sociale, se si assume che è l'essenza del diritto al lavoro e della cittadinanza sociale, lo si ha nel 1948 quando fu sancito nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo "Ognuno ha diritto a un lavoro, a scegliere liberamente la propria occupazione a condizioni di lavoro giuste e vantaggiose, ed essere protetto dalla disoccupazione". Come ricorda Accornero, in Europa il diritto al lavoro è un vero e proprio diritto di cittadinanza, cioè il diritto al lavoro, a un impiego al di là del diritto di guadagno che deriva dal lavoro, quindi "la disoccupazione di massa diventa una inadempienza sociale", ma, rileva ancora Accornero, i due diritti non sono coincidenti in quanto "La cittadinanza sociale poggia sul lavoro, vale a dire sull'esistenza di un rapporto di lavoro, ma anche sul non lavoro, vale a dire sul diritto di ottenere un lavoro [...] La cittadinanza sociale, d'altro canto, non crea delle obbligazioni specifiche per lo stato, mentre il diritto al lavoro le crea, per lo meno come 'occupatore di ultima istanza' [...] La cittadinanza sociale ha una falla che il diritto al lavoro non ha: siccome si fonda su premesse materiali che la rendono possibile, nel caso il diritto al lavoro rimanga inadempiuto essa lascia privi di cittadinanza quei cittadini disoccupati da lungo tempo, che in Europa potrebbero diventare 'underclass', o una non-classe".
Nel secolo scorso il welfare state ha riscosso un ampio consenso per la tacita intesa fra le classi sociali e anche perché per quanto onerosi, come scrive Bauman, i costi dei servizi sociali "erano considerati dalle imprese come dei buoni investimenti, poiché se esse intendevano espandersi dovevano assumere personale, e dovevano reclutarlo fra le file dell'esercito di riserva dei beneficiari dell'assistenza pubblica".
Si era cercata la piena occupazione e protezione con un compromesso sociale, che aveva conciliato lavoro e non lavoro, impiego e sicurezza e che non potranno essere abbandonate per seguire chi suggerisce di adeguarsi al mercato e alla globalizzazione. Scriveva Karl Polanyi "Un mercato autoregolantesi richiede niente meno che la separazione istituzionale della società in una sfera economica ed una politica" poiché "un'economia di mercato può esistere soltanto in una società di mercato".
Leggendo su La Stampa l'articolo relativo all'uscita del rapporto Svimez, in cui si evidenzia che al sud una famiglia su cinque non può pagare il medico, che l'8 per cento delle famiglie rinuncia al cibo, che un meridionale su tre è a rischio di povertà, che fra il 2008-2009 il sud ha perso più di centomila occupati ( -12 per cento), che dal 1990 al 2009 quasi due milioni e quattrocento mila persone hanno abbandonato la loro terra in cerca di lavoro e che nel 2009 sono state cento quattordici mila, ci viene alla memoria ciò che scrive Bauman "siamo franchi, non c'è nessuna 'buona ragione' per cui dovremmo essere custodi di nostro fratello, avere cura di lui, essere morali e in una società orientata all'utile i poveri e gli inattivi, privi di scopo e di funzione, non possono contare su prove razionali del loro diritto alla felicità. Si, ammettiamolo, non c'è alcunché di 'ragionevole' nell'assumersi la responsabilità, nel prendersi cura degli altri e nell'essere morali. La morale non ha altro che se stessa per sorreggersi: è meglio avere a cuore qualcosa che lavarsene le mani, anche se questo non arricchisce le persone e non incrementa la redditività delle aziende".
In Europa c'è la propensione a voler diminuire l'intervento pubblico anche se, ad onor del vero, nella relazione Ocse, relativa all'andamento del 2009, si consiglia una pallida inversione di marcia. In definitiva ci chiediamo con quali mezzi è possibile fronteggiare il problema della disoccupazione se non con adeguate politiche pubbliche. E' compito dello Stato fare in modo che l'economia crei posti di lavoro o, in caso contrario, deve essere suo compito farlo. Deve saper gestire, magari insieme alle rappresentanze dei lavoratori, i fabbisogni necessari, i posti di lavoro domandati e offerti e deve supplire alle mancanze del settore privato attraverso opere pubbliche  o lavori/servizi di pubblica utilità. In caso contrario, scrive Accornero "è meglio considerare il diritto al lavoro ( ma anche la cittadinanza sociale) come un obbligo morale, 'virtuale', cioè 'platonico' [...] Bisognerà rivalutare il part-time e considerarlo una soluzione e, forse, [...] si sarebbe potuto ridurre il lavoro nero". Certamente lo Stato sociale, il cui ulteriore ridimensionamento esporrà a crescenti rischi e dunque costi sociali, dovrà essere rivisto, ma la crisi dello Stato sociale non è imputabile agli incentivi per l'occupazione o per combattere la disoccupazione, ma alla mancanza di prodotto. Per aumentare l'occupazione è necessario alzare la domanda di lavoro e ciò non si fa "diminuendo la durata del lavoro e distribuendola su un numero maggiore di addetti [...] Quel che viceversa serve all'Europa è un netto aumento del valore prodotto, in quantità e qualità. Senza questo risultato non c'è salvezza".
Quindi per incrementare il lavoro, sono necessarie delle politiche pubbliche e l'intervento dello Stato, come ad esempio gli incentivi per il lavoro a tempo parziale, servizi sociali come la maternità e gli asili nido, che servono come sostegno al lavoro delle donne, anche se, dobbiamo convenire, le posizioni sono molto critiche, in quanto l'incentivazione di per sé, senza cambiamenti strutturali nonché culturali, non produce mutamenti di lunga durata, ma solo opportunità di profitti economici momentanei, finendo per indebolire ulteriormente le fasce più deboli, tra cui annoveriamo le donne; necessitano politiche per incentivare l'occupazione o per combattere la disoccupazione. L'Ocse divide tali politiche in 'misure attive e misure passive'.
Fra le misure attive troviamo: 
1. amministrazione e servizi pubblici per l'impiego;
2. formazione al mercato del lavoro: per gli adulti occupati, per i disoccupati e per i soggetti a rischio;
3. iniziative per i giovani: misure per i soggetti disoccupati e sostegno per l'apprendistato;
4. impiego sussidiato: sostegno a disoccupati che avviano un'impresa, creazione di posti di lavoro nel 
    settore pubblico e non-profit, sussidi all'occupazione nel settore privato;
5. misure per disabili: lavori per disabili e riabilitazione professionale.

Fra le misure passive troviamo:
6. sussidi ai disoccupati
7. prepensionamenti: a seconda dell'andamento del lavoro

Le politiche attive sono indubbiamente più costose e impegnative delle passive, ma sono generalmente molto più efficaci nella lotta contro la disoccupazione. In effetti, almeno per il 2009, solo tre paesi europei hanno investito più dell'1 per cento del Pil: Belgio, Olanda e Danimarca. L'Italia ha investito, fra misure attive e passive, l'1,26 per cento del Pil ( al di sotto della media europea) mentre la Danimarca ha investito il 2,56 per cento. Se consideriamo, che oltre a investire poco in politiche pubbliche, si trova una disoccupazione da più di 6 mesi del 61,5 per cento ( solo Ungheria, Portogallo e Rep. Slovacca sono più alti) che è, rispetto alla media Ocse di 21,4 punti percentuali in più; che la disoccupazione da più di dodici mesi è del 44,4 per cento ( solo la Rep. Slovacca è più alta) e, rispetto alla media Ocse, ci sono ben 20,9 punti percentuali in più, allora dire che è una situazione socialmente inaccettabile è un eufemismo. 
Per Solow, le politiche attive del lavoro "sono indispensabili innanzi tutto per far fronte all'esistenza del conflitto tra due norme sociali, il desiderio di autosufficienza degli individui in una società moderna e l'altruismo dei contribuenti [...] ma senza 'l'aggiunta di altri ingredienti', la pura e semplice sostituzione del sussidio con lavoro contribuirà semplicemente alla trasformazione del welfare in disoccupazione, redditi bassi e irregolari, al di sotto dell'accettabilità sociale". Gli ingredienti proposti da Solow sono due, creazione di posti di lavoro sufficienti e quello che lui chiama del "packaging, ossia un sistema misto di lavoro e welfare per contrastare le tendenze di salari bassi e irregolari".
La necessità di un giusto equilibrio fra lavoro e welfare è al centro del rapporto curato da Alain Supiot per la Commissione europea, Il futuro del lavoro, nel quale evidenzia come si debba tener conto, in termini di diritto del lavoro, dell'attuale flessibilità ed incertezza, che fanno espandere forme di lavoro flessibile autonomo, improntato allo scambio fra autonomia e incertezza, in contrapposizione al modello fordista, improntato allo scambio tra subordinazione e stabilità; infatti scrive Supiot "Le nuove configuarazioni del potere, così come i nuovi equilibri tra autonomia del lavoro e protezione sociale e giuridica nelle relazioni di lavoro, possono pertanto presentarsi in maniera molto diversa e richiedere richiedere risposte giuridiche altrettanto diverse".  Da ciò la necessità di difendere lo status professionale del lavoratore dalla discontinuità dell'impiego. Supiot propone i Diritti di prelievo sociale: "Questa nuova condizione professionale delle persone deve integrare le esigenze della libertà del lavoro, intesa come libertà concreta, facilitando il passaggio da un tipo di lavoro a un altro [...] attraverso crediti orari [...] congedi speciali e il diritto di assenza [...] i crediti di formazione, le banche del tempo, gli aiuti ai disoccupati che creino o riprendano un'impresa, gli assegni di formazione ecc. Stiamo senza dubbio assistendo all'apparizione di un nuovo tipo di diritti sociali, riferiti al lavoro in generale ( lavoro nella sfera familiare, lavoro in formazione, lavoro volontario, lavoro indipendente, lavoro di pubblica utilità ecc.). L'esercizio di questi diritti è vincolato dai vincoli di una costruzione realizzata precedentemente, ma la loro realizzazione deriva da una libera decisione dei loro titolari e non dal risultato di un rischio".
La copertura finanziaria di tali diritti dovrà essere garantita da più fonti: Stato, sicurezza sociale, organismi mutualistici paritetici, imprese, lavoratori ecc. 
Castel propone la costruzione di un diritto di proprietà sociale, equivalente alla proprietà privata, in modo da far fronte "alle difficoltà crescenti di protezione dai rischi sociali classici"  e quindi contrastare quelli che lo stesso Castel definisce come "fattori di crescente 'insicurezza civile'". Ma questi diritti di proprietà sociale sarebbero soprattutto indispensabili per far fronte, com scrive Negrelli, " alla nuova generazione di rischi: industriali, tecnologici, della salute, naturali ecc., fonte di quella 'insicurezza sociale' strettamente, e in maniera irreversibile, connessa alla nuova società del rischio definita da Beck". 
Per Solow il welfare deve evitare "un mercato lasciato libero di agire (che) abbandona una certa porzione di cittadini, che spesso include numerosi bambini, in uno stato di profonda indigenza", e deve far sperare, anzi, come scrive Supiot, gettare le basi in una nuova figura "quella di un lavoratore che riesca a conciliare sicurezza e libertà".


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