sabato 26 febbraio 2011

PMI e il " Sistema di conoscenza condiviso"

La domanda che spesso ci poniamo è se sia meglio sviluppare la nostra struttura a piccole e medie imprese oppure, per sopravvivere, se sia necessario costruire imprese di grandi dimensioni. Pmi in crisi. La risposta più ovvia sembrerebbe andare nel verso di queste ultime, perché ci permetterebbero un numero maggiore di posti di lavoro; una maggior forza di penetrazione sui mercati internazionali; maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, quindi, perché no, maggior possibilità di fare brevetti. Ma ci sono delle considerazioni che premono sull'ovvietà: come costruirle, chi le deve costruire e, soprattutto, ne abbiamo le possibilità? 
La nostra storia industriale, basti leggere il testo di L.Gallino "La scomparsa dell'Italia industriale", sembra indicarci una scarsa propensione verso la grande industria. Abbiamo dissipato migliaia di miliardi di vecchie lire nella chimica e nell'elettronica di consumo; abbiamo distrutto il settore dell'aviazione civile, vanto tutto italiano; abbiamo svenduto un'eccellenza della meccanica di precisione, l'Oto Melara; non siamo stati capaci di dare un sostegno nella ricerca e sviluppo alla Olivetti, quando era fra i primi sei produttori mondiali di mainframes: senza considerare che quando l'IBM si avvantaggiava di lucrose commesse ottenute dal governo federale Usa, i nostri ministeri e amministrazioni pubbliche avevano un solo computer dell'italica azienda, quello donato da Adriano Olivetti al ministero del Tesoro. Si sono sperperate e distrutte eccellenze a causa di una politica disastrosa e di un manipolo di manager incapaci. E non si dica che è storia vecchia, perché è di poco tempo fa il disastro di Parmalat e Cirio. E quando tutto questo accadeva, le Pmi tenevano in positivo il saldo occupazionale, senza contare che sono riuscite a salvare le esperienze di quel patrimonio umano che in quelle aziende operava.
La Pmi ha subito la crisi di questi anni, ma molte l'hanno contenuta, altre si sono rinforzate, ma, di certo, sono già pronte a ripartire, di sicuro con fatica, ma ripartono. il Nord-Est rialza la testa. Tra l'altro se guardiamo alle grandi imprese, nel 2010 abbiamo avuto un calo dell'occupazione del 1,6%, rispetto al 2009, e le retribuzioni hanno avuto un incremento del 1,5%, sempre rispetto al 2009; ma si tenga conto  del 3,1% di aumento concordato alla wolksvagen con l'ultimo contratto grandi imprese, cala l'occupazione e sale la retribuzione.
In questo momento la cosa più urgente è creare lavoro, e non è importante se è nelle grandi aziende, nelle Pmi, nelle microimprese o nell'artigianato, l'importante è cercare di impiegare il maggior numero di giovani, per ridurre la disoccupazione e sfoltire le fila dei giovani NEET, la nostra vera vergogna. E' senza il lavoro che non c'è salvezza. Per noi è una boccata di ossigeno  sapere che delle 213.000 nuove imprese del 2010 siano state create dagli under 30. Bamboccioni? No, grazie.
E' con la memoria del passato e consapevolezza del presente che si può costruire il futuro. Quello che è certo è che abbiamo una forte Pmi e, in certe nicchie, delle vere e proprie eccellenze. Quello di cui dobbiamo essere consapevoli, è che siamo agli ultimi posti fra i paesi Ocse circa l'innovazione, si legga non è un paese di innovatori. Infine, sarà prioritario e determinante riformare la scuola e l'università al fine di istruirci le "teste" per il futuro. Ma non è con gli incentivi monetari allo studio che si raggiungono i risultati. I giovani hanno il dovere di studiare, non fosse altro che per il loro futuro, e sta alla scuola e all'università far si che possa diventare anche piacevole. Il sistema scolastico e accademico devono ritrovare un valore assoluto, che riguarda maestri, professori, accademici e studenti: la meritocrazia. Il diritto allo studio è sacrosanto e inviolabile, ma, come in ogni attività, il valore espresso non è uguale per  tutti. Ogni persona deve dare, si deve impegnare e deve ricevere secondo le sue capacità, ma per avere l'eccellenza si devono coltivare le eccellenze. Quello che deve essere garantito è che ognuno abbia il diritto al lavoro, ed è per questo che si devono coltivare le "teste" che si impegnino  a crearlo, migliorarlo e ampliarlo. Invece di dare sostegni monetari per incentivare gli studenti a studiare, si dovranno pensare stage formativi seri, si legga il precedente post "STAGE E DISOCCUPAZIONE", si devono sostenere gli studenti che frequentano master e dottorandi in Italia e all'estero, per poi far tesoro delle loro esperienze acquisite. 
La sfida per il futuro si gioca nel fare "sistema" e per farlo bisogna avere una visione circolare. Dobbiamo sfruttare ciò che abbiamo e inserire ciò che manca, ma tenendo presente le nostre forze e le nostre potenzialità. Per fare "sistema" è necessario avere un Governo che sappia tracciare, sostenere  e spingere una politica di sviluppo industriale adeguata; è necessario che l'università guardi al mondo del lavoro e alle sue esigenze; soprattutto,  che costruisca programmi moderni, nei quali la teoria e la pratica facciano parte del programma accademico, come in Svezia. Senza contare che questo darebbe nuova linfa alle università, che sarebbero tenute a elevare continuamente i loro standard nei programmi, negli aggiornamenti dei professori e nella preparazione dei loro studenti. E' necessario che l'università, le imprese, lo Stato e le regioni sviluppino un progetto in cui ad ogni università sia associato un Centro Ricerche (per tipologia di insegnamento), che sia al servizio del privato e del pubblico; nel quale  si effettui ricerca e sviluppo e, perché no, si facciano brevetti. In tal modo si svilupperebbe un sistema si "conoscenze condivise" il cui costo sarebbe ripartito fra più partner. Ciò permetterebbe di costruire posti di lavoro di elevata qualità, che ci permetterebbe di trattenere o richiamare i nostri cervelli, sparsi per il mondo. Ci permetterebbe di valorizzare tutti quegli studenti che dopo tanti sacrifici decidono di rimanere all'estero perché la loro nazione non sa offrirgli un lavoro decente. Permetterebbe di ripopolare quelle facoltà, oggi carenti, come matematica, fisica, ingegneria ecc. Che senso ha studiare matematica se poi il neo laureato deve far parte dell'esercito di precari della scuola; meglio una laurea in economia e commercio, che, in qualche modo, un lavoro lo riesce a far trovare. Un "sistema di sapere condiviso" avrebbe anche l'opportunità di  creare nelle Pmi sinergie produttive, alleanze strategiche, fusioni o altro, che potrebbero portare anche a dimensioni più grandi per meglio sviluppare le proprie potenzialità. 
Certamente tutto questo ci porta distanti dalle convinzioni dei ministri Meloni e Sacconi, condividendo quanto scrive Guglielmo Forges Davanzati su Micromega, i quali sono convinti che la scolarizzazione abbia la funzione di agevolare l'accesso al mercato del lavoro e che occorre calibrare sulla base delle domande di lavoro espresse dall'impresa. L'economia italiana è sempre più un'economia periferica, nella quale le imprese, non riuscendo a competere innovando, esprimono una domanda di lavoro poco qualificata e quindi meno remunerata (dalle statistiche Ocse risultiamo al 23° posto su 30 paesi). Quindi sarebbero logiche alcune domande: allora cosa facciamo? Aspettiamo che si diventi ancora più periferici? Oppure facciamo in modo che almeno diventi una periferia di lusso? Se i nostri ministri sono consapevoli di questa situazione, ci chiediamo quale sia il compito di un Governo, se non quello di dare gli indirizzi più consoni per uscire dalla crisi sempre più pressante. Non può esserci un'attesa passiva e un'adeguamento della scuola al lavoro, ma deve essere un lavorare insieme per uscire da una situazione di stallo, se non di continua perdita di posti di lavoro. Soprattutto, a differenza dei nostri ministri,  noi riteniamo che la scuola non debba calibrarsi sulle domande del mondo del lavoro, ma debba essere un partner del cambiamento del mondo del lavoro. Deve, soprattutto, sentirsi parte integrante dell'evoluzione dello stesso e deve mettere in campo la conoscenza per arrivare dove altri, con mezzi superiori, riescono ad arrivare. 
Quando il ministro Tremonti dice che con la cultura non si mangia, forse un pizzico di ragione ce l'ha, se guarda al presente. E' certo che senza di essa, comunque, in futuro non si mangerà.

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