domenica 6 febbraio 2011

LA FLESSIBILITA' DEL LAVORO

Ormai la flessibilità è richiesta da ogni parte, come un qualcosa di inderogabile. Non vi è istituzione nazionale o internazionale, giornale o governo che non invochi quotidianamente l'esigenza, la necessità o l'urgenza della flessibilità per il futuro del lavoro. Società flessibile, lavoro flessibile, tempo flessibile e uomo flessibile sono termini ormai d'uso quotidiano, che possono dar vita a scenari diversi: come fonte di precarietà o opportunità; determinante per la crescita occupazionale o elemento di disgregazione sociale e di maggior impoverimento; utile alla crescita professionale e personale o causa di elevati costi personali.

Affinché sia possibile capire con profondità che cosa sia la flessibilità e i costi umani che ne conseguono bisogna tener conto di molteplici aspetti: sotto quali forme si presenta e quante sono le persone interessate; valutare i costi umani in funzione dei vari sistemi lavorativi o modi di lavorare; la diversità degli oneri conseguenti a seconda del livello di istruzione, di qualificazione, di professione, di genere e di età; e, infine, ma non meno importante, in funzione della storia lavorativa, dello stato di salute e dell'origine etnica.

A fronte delle varie tipologie di flessibilità utilizzate dai vari studiosi, concentriamo la nostra attenzione sulla  flessibilità dell'occupazione e flessibilità di prestazione, che, combinate insieme nella stessa persona, comportano certamente costi rilevanti per la persona stessa. Vediamo nello specifico le due specie di flessibilità, rilevando fin da ora che non è infrequente che la disponibilità ad accettarle sia utilizzata dalle imprese come forma di ricatto per un possibile rinnovo del contratto in essere.

La flessibilità dell'occupazione  si presenta, specie in Italia, sotto fin troppe varie tipologie di contratti lavorativi atipici, che avrebbero il compito di facilitare o incentivare l'occupazione: lavori a tempo determinato o a termine; contratti a tempo parziale; contratti di lavoro in affitto o interinali o in somministrazione; contratti di lavoro a progetto, giuridicamente configurati come autonomi ma, di fatto, designati come parasubordinati, per distinguerli dal lavoro indipendente; contratti di lavoro ripartito, dove due persone si dividono un lavoro a tempo pieno nel giorno o nella settimana: contratti di lavoro intermittente o contratti a prestazione occasionale. L'elemento fondamentale della flessibilità dell'occupazione è l'assoggettamento ai cicli produttivi e la sua più facile attuazione in sistemi in cui sia più facile licenziare o dove siano meno pressanti le norme di tutela della durata dell'occupazione, in ciò esplicitando il lavoro di erosione della politica alle norme delle vecchie tutele per rispondere alle esigenze dell'economia.

La flessibilità di prestazione, invece, riguarda la possibilità dell'impresa di variare i parametri delle condizioni in cui i lavoratori prestano la propria attività: si veda la differenziazione dei salari o la variazione degli orari, per ottimizzare l'utilizzo degli impianti produttivi o per rispondere adeguatamente ai cicli produttivi. Di conseguenza si hanno i lavori a turno; gli orari annualizzati, in cui, la media delle quaranta ore settimanali, viene ripartita nell'anno con settimane a orario più lungo e settimane a orario più corto in base alle esigenze produttive o commerciali; nella grande distribuzione sono frequenti improvvise variazioni di orario in particolari fasce di orario o di giorni in cui il lavoratore da la propria disponibilità; infine i trasferimenti di personale fra reparti o sedi, lo straordinario ecc. La regolazione di questo tipo di flessibilità è data dai contratti collettivi fra sindacati e imprese a livello nazionale e a livello integrativo e anche dalle norme di ciascuna tipologia di contratto.

Accanto all'occupazione instabile e discontinua, con contratti a termine ma gestiti da leggi, esiste anche un mercato parallelo, costituito dall'economia sommersa, dove milioni di persone sono assoggettate all'arbitrarietà del datore di lavoro, che stabilisce le ore da fare, che modula l'entità del salario a suo piacimento, che decide se e quando assumere e licenziare. Milioni di persone che all'instabilità del lavoro uniscono l'assoluta mancanza di diritti. E' talmente forte la connessione e l'intreccio fra l'economia regolare e quella sommersa, che, qualora quest'ultima si fermasse quella regolare ne subirebbe conseguenze; senza considerare la difficoltà a redigere statistiche ufficiali di una certa esattezza a causa dei continui spostamenti di lavoratori fra il sommerso e il regolare, fra il formale e l'informale.

Secondo Gallino, in Italia le persone soggette ad occupazione flessibile sarebbero oltre dieci milioni per cui "sembra dunque di essere in presenza di una condizione sociale più pesante e diffusa di quanto non dicano ogni giorno gli articoli rassicuranti sulla modesta consistenza e stabilità nel tempo del lavoro flessibile, oppure i sagaci commenti sulla 'precarietà percepita' come stato d'animo in fondo immotivato, in quanto non corrispondente alla realtà".

In Italia e in altri paesi europei il diritto del lavoro e la legislazione sul lavoro sono stati le "mura della cittadella" per milioni di lavoratori, che li ha "trasformati in cittadini a pieno titolo, coscienti del ruolo in una società democratica e della dignità che spetta a ogni persona, indipendentemente dal censo e dalla professione" e i lavoratori flessibili "sono una forma di erosione delle mura di questa cittadella, che vi hanno già prodotto crepe vistose, e promettono di continuare l'opera, a fronte di una speranza neppur troppo sottaciuta di vederle infine crollare". D'altronde le ormai antiche tutele sono oggi sicuramente un ostacolo alla sempre più pressante richiesta di modificare gli orari, le retribuzioni e il tempo, a seconda delle necessità commerciali o produttive, e, soprattutto, un ostacolo all'assunzione e licenziamento senza tener conto di leggi e norme. Ed è proprio in funzione di questa progressiva demolizione che si è  continuato a deregolamentare il mercato del lavoro, smantellando la legislazione che proteggeva l'occupazione, così da riportare il lavoro a livello di merce e regolato esclusivamente con i soli obblighi per contraenti che derivano da un contratto commerciale. 


Tra la concezione del lavoro come merce, e quella che ad essa si oppone. le differenze sono sostanziali. Se il lavoro viene considerato una merce, è naturale pensare alla separazione del lavoro stesso dalla persona del lavoratore e, quindi, parlare di mercato del lavoro, dove la merce-lavoro è scambiata allo stesso titolo di ogni altra merce, non tenendo conto delle conseguenze che tale separazione può avere sulla persona. Tutto ciò esenta l'impresa, la collettività e lo Stato dal tener conto della dignità, delle competenze professionali, del futuro e delle relazioni familiari del lavoratore; al limite, qualora succeda qualcosa a livello contrattuale, c'è una messa a tacere della coscienza con gli ammortizzatori sociali, che dovrebbero avere il compito di aiutarlo a ridurre e alleviare le difficoltà.


 Due tipi di contratti evidenziano in modo perfetto quanto sopra esposto, il lavoro a chiamata e il lavoro in affitto.


Il lavoro a chiamata prevede che il lavoratore sia a disposizione dell'azienda e che potrà essere chiamato sul posto di lavoro, per telefono o con un sms e con un preavviso che va da qualche giorno a qualche ora, in certe ore del giorno o in certi giorni della settimana, che non sono quasi mai gli stessi. Talvolta, ma non sempre, il tempo in 'disponibilità' viene retribuito con un quarto del salario medio. Se solo si pensa che non può staccarsi dal telefono a dal cellulare, per non rischiare di perdere sia l'opportunità di lavorare che l'indennità di disponibilità, sempre che gli sia stata concessa, non ci vuole  molta fantasia ad associare questo tipo di lavoro a quella di un qualsiasi altro fornitore, al quale si telefona in qualunque momento della giornata per una fornitura. E poco ci manca per avvicinarlo ad una sorta di condanna agli arresti domiciliari.


Il lavoro in 'affitto', un tempo  chiamato 'interinale' ed oggi in 'somministrazione', ci fa pensare più un tentativo degli addetti ai lavori di dare dignità al termine che non intervenire sulla sostanza del contratto, e, sotto certi aspetti, ci ricorda il cambiamento terminologico da 'spazzino' o 'netturbino' a 'operatore ecologico', senza che al lavoratore, comunque, fosse tolta la scopa. In questa tipologia di contratto, il lavoratore viene assunto da un'impresa, detta 'somministratrice', dopodiché viene mandato a lavorare presso un'altra impresa, la quale utilizzerà il suo lavoro, chiamata 'utilizzatrice'. Quindi il lavoratore dipende da un'impresa, ma lavora per conto di un'altra impresa e da ciò si consegue che il contratto fra le due imprese è un vero e proprio contratto commerciale, analogo a quelli che regolano la cessione di un qualsiasi tipo di merce. 


La prima tappa di ri-mercificazione del lavoro, in Italia, è a seguito del protocollo d'intesa tra governo, sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro del 23 luglio 1993, che ha dato seguito alle successive leggi e decreti nell'accrescere la flessibilità dei rapporti di lavoro.


Tutte le leggi e decreti di legge seguiti da tale protocollo non hanno fatto altro che aumentare la flessibilità dell'occupazione e la flessibilità della prestazione., oppure moltiplicando a dismisura i lavori flessibili, per cui si è data mano libera a imprenditori e manager di creare condizioni perenni di lavoro a termine.


Con la legge 30/2003 e in specie il suo decreto attuativo 276/2003 viene abrogata la legge in cui si vietava l'interposizione di terze parti nel rapporto tra il lavoratore e l'impresa, per cui, di fatto, tale abrogazione priva il lavoratore di qualsiasi capacità negoziale nei confronti dell'impresa utilizzatrice, quella in cui effettivamente lavora. Il paradosso sta nel fatto che a tale lavoratore viene concessa la libertà di svolgere attività sindacale, ma viene da chiederci come sia possibile, in concreto, svolgerla. Soprattutto viene da chiederci se chi redige le leggi si pone mai il problema di simulare le conseguenze che tali leggi possano avere sulle persone.


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