martedì 1 febbraio 2011

Cos'è cambiato?

Sia il lavoro che le imprese si sono dovute adattare ad un mercato sempre più nevrotizzato, diventando flessibili e pronte a rispondere alle sollecitazioni che quest'ultimo le impone. Ciò si è ripercosso anche sul mercato del lavoro e sul lavoratore, obbligandolo, a sua volta, a diventare flessibile. Aris Accornero, in Era il secolo del lavoro, scrive"Il mondo della produzione passa dalla 'scala' allo 'scopo' [...] e le imprese tendono a concentrarsi sul core business e, al tempo stesso, a essere più aperte verso l'esterno, anche perché l'interdipendenza e la complementarità pagano". E' importante rilevare che le imprese di servizi diventano non solo numericamente più rilevanti delle imprese di produzione, ma, spesso, è proprio nelle prime che si evidenziano lavori e forme produttive pre-industriali. Senza contare che non è infrequente che facciano da cuscinetto alle imprese a cui prestano servizi quando il lavoro tende a diminuire. quando il lavoro diminuisce, l'impresa produttiva tende a riportare al suo interno il lavoro, lasciando all'impresa di servizi l'onere di gestire gli eventuali 'esuberi'. Quello che è certo, scrive Accornero, è che "anche se non è detto che sia una vittoria o una rivincita del capitale sul lavoro, è un fatto che queste novità portano una marcata impronta padronale e capitalistica, mentre negli anni '70 avevano un'impronta operaia e sindacale".
Il ridimensionamento, al quale si sottopongono le imprese, per diventare più maneggevoli e per ridurre le diseconomie, spesso su traduce in accentuata nati-mortalità, attraverso cessioni, fusioni, cessazioni ecc. Ma questa esigenza nasce soprattutto dal fatto che in periodi di recessione economica le imprese di dimensioni minori hanno avuto maggiori prestazioni.
Per quanto riguarda l'Italia, le fabbriche tendono a diventare sempre più snelle ed essenziali, sia nelle dimensioni che nei magazzini, avendo cura di mantenere scorte minime e, soprattutto, cercando di evitare ogni forma di spreco. E' attraverso soluzioni tecnologiche essenziali e un'organizzazione snella che si mira a tempi di fabbricazione e di immagazzinamento rapidi e attenti alle esigenze del mercato,recuperando costi di produzione e ottenendo più competitività con l'imperativo di produrre per il mercato e non per il magazzino.
Quando, riferendosi alla sinistra italiana e agli intellettuali cosmopoliti, Accornero scrive "hanno coltivato pregiudizi verso imprese che, oltre ad aver un costante saldo occupazionale positivo, costituiscono l'humus economico-sociale di aree in crescita e di sistemi produttivi capaci di emulare le grandi dimensioni. Basta guardarsi intorno: dove non c'è sviluppo è proprio perché mancano le piccole industrie", non possiamo che concordare, ma dobbiamo altresì evidenziare che queste nuove imprese, snelle e reattive, hanno ridotto la forza contrattuale, i vantaggi retributivi e il peso sociale degli operai che vi lavorano. Senza contare tutta la massa di lavoratori che operano in settori e lavori pre-industriali e di bassa qualità, per non parlare di tutti quei lavori di servizi, nei quali la mano d'opera è mal pagata o soggetta ai lavori atipici.
Nel periodo taylor-fordista si pensava all'automazione per ridurre la forza-lavoro, oggi, invece, la si ottiene ristrutturando oppure dando all'esterno il lavoro che rende meno o si compra a minor costo, per cui, come scrive Accornero "ciò che regge e guida lo smagrimento è infatti il procedimento just-in-time, contrapposto a quello tradizionale o just-in-case".
Gli uffici sono organizzati e informatizzati per poter dialogare con tutto il mondo in tempo reale. Anche i reparti produttivi sono ben organizzati, ben strutturati e più vivibili, per rispondere alle esigenze di grande produttività, unita alla variabilità del prodotto. Tutto ciò porta a dire che il lavoro è meno faticoso e sicuramente meno pericoloso, ma non certo più sicuro in termini di posti di lavoro.
Nelle imprese nelle quali sono state introdotte le nuove tecnologie si è ridotto il lavoro manuale e i lavori che richiedono la manualità, facendo sparire interi mestieri. Oggi si lavora con meno fatica e meno  sudore grazie alla tecnologia studiata e progettata per ridurre i posti di lavoro in quanto, come osserva Accornero "il progresso nel lavoro umano si misurava in termini di risparmio di addetti che non di riduzione del sudore", ma, come abbiamo rilevato in precedenza, accanto a settori in cui il ruolo della tecnologia è tale da rendere il lavoro 'meno faticoso' convivono lavori e settori produttivi pre-moderni in cui la fatica è ancora predominante e la qualità del lavoro è molto bassa.
Nell'impresa snella si prediligono i compiti cooperativi a quelli esecutivi, anche se oggi sono concentrati solo su certi profili lavorativi e professionali; si richiedono attitudini polivalenti più che specializzate, e ciò rende il lavoro meno monotono e più intercambiabile; si incoraggia il lavoro di gruppo, le gerarchie sono quasi livellate e il lavoro si basa sempre più sulle competenze che non sul compito, e ciò fa sì che sul mercato del lavoro si ricerchino lavoratori con particolari caratteristiche.
Anche se solo per una questione utilitaristica, le imprese hanno bisogno di lavoratori preparati e interessati alla gestione e alla cooperazione, perché è solo in questo modo che riescono a gestire le continue sollecitazioni e richieste del mercato; è solo attraverso l'elasticità del mestiere o professione che riesce a ridurre i tempi fra la richiesta, la progettazione e la produzione. Questo coinvolgimento, voluto o subito, da parte del capitale, naturalmente porta a una maggiore professionalità o, per meglio dire, porta i manager a dover spartire le conoscenze progettuali e direzionali. Quel che invece è discutibile, per parte nostra, è la tipologia di cooperazione e partecipazione messa in atto, in termini di profondità, che dovrebbe essere intesa anche in termini di partecipazione agli utili e di partecipazione alle strategie aziendali, ma, soprattutto, dovrebbe interessare tutte le maestranze e non solo il team work.
Se, da una parte, è innegabile che il lavoro è migliorato sotto l'aspetto della fatica e del sudore e che ci siano maggiori attenzioni ala sicurezza ambientale, dall'altra, non si può dire la stessa cosa circa la partecipazione a tutti  i livelli del ciclo produttivo. Nascono lavori nuovi, in termini professionali, progettisti, addetti alla certificazione, addetti alla sicurezza, addetti alla gestione dei rifiuti ecc., dei quali il management non può farne  a meno di coinvolgerli nella gestione, per cui c'è il rischio che la crescita professionale si concentri solo in una gorziana élite, lasciando i rimanenti lavoratori in un 'coinvolgimento forzato'. Il fatto che il lavoratore intervenga di sua iniziativa a riparare un problema sulla linea di produzione non è perché è 'coinvolto', ma solo perché 'è stato istruito a farlo'. Nelle fabbriche taylor-fordiste si insegnava solo pochi movimenti e poi era la catena di montaggio che dettava i tempi: i problemi dovevano essere risolti da altri e i difetti di produzione si sistemavano con i pezzi di ricambio, subordinando la qualità alla quantità. Nella produzione snella si insegna ai lavoratori come intervenire sulla linea, perché intervenire e, soprattutto, che è necessario intervenire. Ciò permette di risolvere subito il problema tecnico o di qualità, riducendo i tempi d'intervento da parte di tecnici interni o esterni, ed evitando successive contestazioni dei clienti ed eventuali interventi post-vendita. Di conseguenza si ha una maggiore professionalizzazione, ma non un profondo coinvolgimento cooperativo e partecipativo del lavoratore.
Pur consapevoli che la qualità totale molto spesso è stata usata solo come biglietto da visita e per la gestione del personale, ha tuttavia introdotto nell'impresa l'importanza della qualità, ma, a livello della produzione, non si è certo dimenticata della quantità. Nella produzione snella non si produce meno, semmai si produce meglio. La Qualità totale non ha subordinato la quantità alla qualità, semmai le ha messe sullo stesso piano. Pur riconoscendo che oggi i lavoratori, in qualche modo, sono più partecipi alla produzione, e hanno più libertà di intervento, evidenziamo solo che se non si attiva una vera partecipazione e un vero coinvolgimento si ha la sensazione che gli si sia detto di non tenere più la testa bassa solo perché ciò è più utile all'impresa. E' solo in questi termini che concordiamo con Accornero quando scrive "Naturalmente l'impresa può ritenere che questo costa troppo, ma allora deve anche sapere quanto le costerà il negarlo [...] Molto dipende dall'impresa per come opera a cercare la cooperazione". 

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