sabato 29 gennaio 2011

PARTECIPAZIONE E COOPERAZIONE

A chi lavora oggi si chiede di dare un prodotto o un servizio di qualità, elementi fondamentali dei quali nessuna azienda può farne a meno, ma ciò implica che all'interno delle fabbriche sia assente il conflitto e massima la cooperazione. Infatti Aris Accornero, in Era il secolo del lavoro, scrive: "Del resto, quale azienda potrebbe mai promettere la qualità totale ai propri clienti, rinunciando impunemente all'intelligenza dei propri lavoratori. la qualità totale non rende possibile una nuova qualità del lavoro, ma rende necessarie nuove relazioni del lavoro".

Con la qualità i lavoratori si impossessano di nuovo dei contenuti del lavoro e il processo lavorativo, scrive Accornero "sta insomma descrivendo una traiettoria storica che dall'esecuzione rigorosa porta alla cooperazione intelligente".  Si pensi che che già a metà degli anni '30 del secolo scorso scriveva Simone Weil nelle sue lettere, tratte dalla Condizione operaia: "Per quanto riguarda le fabbriche, la questione che mi pongo, completamente indipendente dal regime politico, è quella di un passaggio progressivo dalla subordinazione totale ad una certa mescolanza di subordinazione e di collaborazione, l'ideale essendo la cooperazione pura".

Dai tempi della Weil qualcosa è stato fatto, se pur in modo contradditorio, ma siamo ancora agli inizi della salita che, per quanto ripida, è l'unica strada perseguibile. Fondamentale è considerare l'impresa, come ricorda Accornero, "una comunità non più basata sulla fedeltà e sulla deferenza, come in passato, ma al bisogno di infondere e di esaltare il contenuto etico del lavoro".

Poco varrebbe parlare di partecipazione, coinvolgimento, qualità totale, se la maggior flessibilità richiesta fosse la causa della perdita di lavoro. Le imprese dovranno tenere conto che è difficile chiedere la qualità ad un lavoratore saltuario o a lavoratori che sentono la loro sicurezza minacciata invece che rafforzata; soprattutto, dovranno metabolizzare che una mano d'opera eccellente e partecipante è un investimento per il futuro, per cui la partecipazione la dovranno ritenere un qualcosa di assolutamente utile e necessario. Certo, le difficoltà saranno sempre alla porta, visti gli interessi differenti dei partecipanti, ma ognuno, per la sua parte, dovrà lavorare per costruire nuovi rapporti sistematici basati sulla reciproca fiducia e gestiti da un minimo di regolamentazione contrattuale e legislativa, perché, come scrive Accornero: "La cooperazione intelligente necessita di un presupposto non rinunciabile: una relativa sicurezza del lavoro, una relativa stabilità del posto [...] Chi obiettasse: come si fa a parlare di sicurezza e di stabilità del lavoro, in tempi di competizione globale, farebbe meglio a chiedersi: come si fa a parlare di qualità del lavoro con lo spauracchio del licenziamento?".

La partecipazione ha la finalità di correggere l'intrinseca asimmetria del rapporto di lavoro salariato. I due modelli che ci interessano sono: la partecipazione collaborativa e quella integrativa congiuntamente. Vediamo con il testo di Guido Baglioni, Democrazia impossibile, di capire i due aspetti della questione.

Se la partecipazione collaborativa "contempla la possibilità di miglioramenti della posizione socioeconomica e la correzione della asimmetria [...] senza modificare la ragione sociale dell'impresa", quella partecipativa "propone di interessare i dipendenti all'andamento dell'impresa e/o coinvolgerli nelle sue vicende e nel suo destino". Quindi la prima dovrà stabilire poche, significative e trasparenti regole generali da rispettare ( democrazia industriale), attraverso le quali impostare una partecipazione economica, culturale e organizzativa.

La partecipazione economica può espletarsi o attraverso una quota retributiva variabile in aggiunta al salario fisso, valutata in funzione dei risultati dell'azienda (profit sharing) oppure dare l'accesso ai lavoratori alle quote azionarie del capitale (employee ownership). Soluzione, quest'ultima, che spesso è stata usata come "deterrente contro il sindacato", oltre al fatto che necessiterebbe di un mutato assetto politico-economico. Se, come dice Baglioni, "è evidente che rispetto alla democrazia industriale, la democrazia economica, sia pure con la presenza sindacale, non è finalizzata alla costituzione di organismi formalizzati deputati a definire le condizioni di lavoro e, tanto meno, le decisioni dell'impresa", allora la soluzione del profit sharing è più significativa e rilevante rispetto all'altra: sia sotto l'aspetto delle relazioni industriali, che  le finalità motivazionali, senza escludere che "mette a disposizione un bene" e di conseguenza "può prevedibilmente incontrare il consenso e suscitare aspettative nei soggetti coinvolti".

Con la partecipazione collaborativa si deve costruire l'impalcatura gestionale e con la partecipazione integrativa, sia economica che culturale-organizzativa, il contesto operativo, per cui è evidente che la presenza dei sindacati è importante, altrimenti nessuno sarebbe disposto ad assumere il rischio di una quota di salario dipendente dall'andamento dell'azienda, senza avere la possibilità di partecipare alle strategie e decisioni aziendali e alla verifica dell'applicabilità della partecipazione agli utili. Tale impostazione partecipativa ha, come conseguenza, che sia obbligatorio il coinvolgimento di tute le maestranze, per cui, a ogni livello del ciclo produttivo, tutti sono coinvolti in un progetto di comune interesse. Ed è in quest'ottica che non vediamo scisse le due direzioni della partecipazione integrativa: economica e culturale-organizzativa. In caso contrario si parla di cose diverse dalla partecipazione.

Quello di cui parliamo e del quale le aziende dovrebbero far tesoro, è una partecipazione attiva alla vita dell'azienda. Una partecipazione che assume una dose di rischio consapevole, ma supportato da una partecipazione alle scelte, alle strategie, alle politiche da adottare all'interno e all'esterno dell'azienda. Ed è per questo che è significativa la presenza del sindacato o delle sue rappresentanze, per la tutela dei meno istruiti e preparati in ambito amministrativo, commerciale e gestionale. Per Sidney P.Rubinstein, il sindacato, con il management e il personale tecnico, costituisce uno dei poli istituzionali dell'impresa. Infatti, per questo autore, i sistemi aziendali tendono a diventare instabili se si realizza la democrazia partecipativa ( circoli di qualità) senza la democrazia rappresentativa (sindacato).

Quando parliamo della Qualità totale, dei circoli della qualità, del just-in-time o produzione snella ci rifacciamo sempre al 'sistema Giappone', portandoci dietro le divergenze di chi è favorevole o meno a tale sistema. I giapponesi hanno avuto l'intelligenza e la capacità di adattare alle proprie esigenze un diverso modo di produrre e di concepire l'azienda, applicando teorie di studiosi occidentali, ma non per questo i deve copiare il loro sistema e trasportarlo integralmente in occidente, ma adattarlo alle nostre esigenze e alla nostra cultura. Cò che è realmente importante è il concetto di "comunità" che Ronald Dore ha dell'impresa, come scrive Baglioni "che mostra una superiorità (rispetto alla tradizionale) in termini di innovazione, competitività e grado di soddisfazione di chi in essa opera" oltre al fatto che essa " si presenta come luogo di tutti coloro che in essa lavorano, gli azionisti appaiono come un gruppo di soggetti esterni, il senso di appartenenza spinge tutte le componenti interne a rendere l'impresa più prospera, la dirigenza deve avere un'ampia e riconosciuta legittimazione professionale e morale".

Oggi l'impresa ha necessità di contenere i costi, di ridurre le scorte, di adattarsi alle mutevolezze del mercato, di avere una buona qualità ad una elevata produttività, per cui la flessibilità sarà una necessità anche per gli anni a venire ed è importante che in ogni azienda esista un "gruppo di lavoratori partecipanti" e non un "nucleo di lavoratori di élite e tanti periferici". Certamente il lavoro flessibile implica "mansioni più allargate e maggiori responsabilità, quindi maggiore pressione, ed insieme una pressione culturale, volta ad ottenere la piena disponibilità", ma all'operaio 'bue' di Taylor è preferibile l'operaio professionalizzato d oggi, e all'operaio della catena di montaggio di Ford è preferibile l'operaio della linea di produzione della Ferrero. Se è pur vero, come afferma Bonazzi, che "il lavoro è divenuto più responsabile ma più diligente, più di gruppo ma più controllabile, meno burocratico ma non meno vincolante sul piano dei rapporti umani", è anche vero che ciò è indispensabile per il buon funzionamento della struttura produttiva. Ma se ci fosse una reale e profonda partecipazione di tutti i lavoratori ciò sarebbe accettabile, se non desiderabile, perché ogni sforzo farebbe parte del bene comune, senza contare che si annullerebbe il rischio della 'gorziana élite', in quanto quest'ultima felice o obbligata a spartire le conoscenze, se non altro a scopo utilitaristico, attivandosi ad istruire all'ottimo richiesto ogni singolo lavoratore. Ed è per ciò che l'impresa, specie europea, se vorrà affrontare la concorrenza internazionale, avendo costi del lavoro più elevati, dovrà ripensare la propria organizzazione in termini di partecipazione, perché, come scrive Tawney "è ozioso attendersi che gli uomini diano il meglio di se stessi a un sistema in cui non hanno fiducia, o che abbiano fiducia in un sistema nel cui controllo non hanno alcuna parte".







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