martedì 8 marzo 2011

IL LAVORATORE "USA E GETTA"

L'obiettivo delle imprese è la riduzione dei costi fissi e in questa fase, di continua ristrutturazione, gli obiettivi sono due: ridurre al minimo l'utilizzo di mano d'opera, semmai, giusto il tempo necessario, e l'altro, di trasferire tutti i rischi su chi lavora.
A tal proposito suggeriamo la lettura del testo di Marco Panara, La malattia dell'Occidente, dal quale ricaviamo i dati di seguito utilizzati per avere una panoramica del tentativo costante e pressante, da parte delle imprese e delle istituzioni, di aver fatto perdere il valore sociale del lavoro e di averne distrutto il valore economico, attraverso la flessibilità e il suo costante utilizzo, tanto da trasformarla in precarità. 
Attraverso la flessibilità le imprese conseguono la riduzione del costo del lavoro, remunerandolo solo quando serve e nella quantità che serve, riducendo il rischio di impresa, limitando i costi fissi e lasciando i lavoratori senza la garanzia della continuità del lavoro e quindi del salario. Ma non sempre la flessibilità corrisponde alle esigenze produttive, spesso è un modo, sicuramente non legale, per comprimere il costo del lavoro. Se andiamo a vedere le statistiche nei maggiori paesi industrializzati (Ocse) si vedrà quanto sia diffusa questo tipo di illegalità. 
Nei soli Usa si parla di 3,4 milioni di lavoratori, che lavorano in modo continuo e con incarichi  specifici presso aziende, ma con paghe più basse, ore di straordinario non pagate, ferie non retribuite e nessun contributo assicurativo e previdenziale. Quindi c'è l'esercito dei lavoratori temporanei, che in Giappone sono il 13,6%, in Europa, fino al 2005, erano il 15%, poi sceso al 13,5% nel 2009, ma solo perché a causa della crisi non sono stati rinnovati moltissimi contratti a tempo. 
Nel nostro paese, secondo l'Istat, i lavoratori a termine, nelle sue svariate forme, sono oltre 3,5 milioni, con un reddito pro capite di 8.800 euro l'anno, contro i 15.900 della media nazionale. Il minor guadagno non è dovuto solo alla discontinuità del lavoro, ma anche al fatto che i lavoratori temporanei percepiscono, in media, il 24% in meno dei dipendenti a tempo pieno. Sempre secondo l'Istat (2008) circa 600.000 sono lavori temporanei con inizio da meno di due anni e 1.300.000 da più di dieci anni e, dramma nel dramma, con un'età media dei lavoratori di 40 anni. Qualcuno si scandalizza quando si scrive che sono vite frammentate, alle quali non è concesso progettarsi un futuro e che ha enormi difficoltà a staccarsi, economicamente, dalla famiglia, quindi l'impossibilità di costruirsene una propria. Senza contare il tristissimo futuro previdenziale e con redditi insufficienti per accumulare una pensione.
L'Italia, inoltre, ha anche una piaga peggiore, il lavoro nero: assenza di diritti, non esiste la busta paga, ferie, tasse e assicurazioni contro l'infortuni. Secondo l'Istat (ma è una stima, per la difficoltà a censire adeguatamente un fenomeno sommerso) sono 2.600.000 i lavoratori in nero (10,5% sul totale) . Una enormità. 
Ora, se facciamo la somma fra i lavoratori part-time (14,1%), che molto spesso non è una scelta volontaria, i lavoratori temporanei (12,5%) e quelli in nero (10,5%) si ottiene un 37,1% sul totale degli occupati. Questo è l'esercito dei lavoratori  italiani a basso salario e con pochi o nessun diritto. Sono i lavoratori che risentono e subiscono l'oltraggio del deprezzamento del lavoro e la perdita del suo valore economico. Non solo non vengono pagati di più perché utilizzati solo in caso di necessità, ma devono subire anche la violenza di un mercato che non funziona bene, perché, da parte del capitale e della debolezza o passività dei governi, non vi sono interessi, volontà o forza per farlo funzionare.  
Per chi scrive, che dal 1973 è nel mondo del lavoro, il sogno era il "lavoro per la persona" e aveva sperato che l'Europa, con la direttiva comunitaria 93/104 (art.13), in cui si esortava a mettere in pratica il "principio generale dell'adeguamento del lavoro all'essere umano", si avviasse verso quel traguardo per ridare dignità al lavoratore e "di nuovo" un valore sociale al lavoro, che sembra sempre più prerogativa di pochi. Purtroppo, invece, la strada sembra portarci verso un nuovo soggetto del lavoro: il lavoratore "usa e getta". 


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