lunedì 14 marzo 2011

LETTERA AD UN IMPRENDITORE: la modernità di Simone Weil

Sistemando la catasta di appunti, che da anni cresce in modo disordinato, ho avuto occasione di rileggere alcuni passi tratti dal libro di Simone Weil, La condizione operaia, che avevo utilizzato per spiegare che cos'è stato il taylorismo, attraverso l'esperienza di lavoro in fabbrica dell'autrice. Rileggendoli dopo tanto tempo mi sono reso conto di quanto fossero ancora attuali le sue osservazioni, specialmente analizzando il lavoro in generale e non nelle sue specificità.
 Se si pensa al lavoro nei paesi in via di sviluppo; se si immagina la vita dei giovani e meno giovani che escono ed entrano nel mondo del lavoro con una velocità imbarazzante; se si pensa che il lavoro a tempo indeterminato si sta sempre più concentrando su una ristretta elite, lasciando ai due terzi degli occupati  i lavori meno pagati, con contratti di lavoro temporaneo e con l'incertezza di crearsi un futuro; se si pensa al lavoro nero; se, ancora oggi, parlare di partecipazione dei lavoratori sembra un'eresia, anche se molti studiosi continuano a scrivere che ciò è sempre più richiesta dalle aziende; se  si osserva l'insensibilità dei governi verso la scuola, l'istruzione e la formazione; e, soprattutto, se si vede il ritorno di un capitalismo aggressivo e deciso a riconquistare interamente la gestione del lavoro, togliendo a quest'ultimo il suo valore sociale, allora gli scritti della Weil sono ancora attuali. La cosa incredibile è che l'esperienza lavorativa della Weil è stata fatta dal 1934 al 1935. Sono trascorsi 76 anni e le cose sono rimaste o sono tornate o stanno tornando come a quei tempi. E' per ciò che abbiamo pensato di scrivere una lettera, come Weil, ad un ipotetico imprenditore, utilizzando "per intero" diversi passi del suo libro e utilizzando lo stesso approccio.


                                                                                                 Lunedi, 14 marzo 2011


Signore
Mi consenta di esprimerle il mio pensiero su alcune considerazioni da lei fatte circa il tipo di  rapporto da mantenere all'interno della fabbrica e sulla necessità o meno della cooperazione dei lavoratori. Lei sa benissimo che non c'è nulla che paralizzi il pensiero più del senso di inferiorità necessariamente imposto dai colpi quotidiani della povertà, della subordinazione, della dipendenza. E rimane difficile capire come, ai giorni nostri, si debba ancora discutere della dignità di chi lavora. Sono consapevole che comandare non rende facile porsi dal punto di vista di chi obbedisce, ma la forza e la capacità di un imprenditore è gestire le persone come patrimonio aziendale e dovrebbe insegnare ai capi che comprendessero qual'è esattamente la sorte degli uomini ch'essi impiegano come manodopera. E bisognerebbe che la loro preoccupazione dominante fosse non già quella di aumentare sempre il rendimento al massimo ma di organizzare le condizioni del lavoro più umane e compatibili con il rendimento indispensabile all'esistenza della fabbrica.
Quest'ultima non è un qualcosa di estraneo alla società, anzi, a ben vedere, dovrebbe ancora essere il luogo di maggiore socializzazione, e, per quanto mi riguarda, anche in essa concepisco i rapporti umani solo sul piano dell'uguaglianza; dal momento in cui taluno comincia a trattarmi da inferiore, nessun rapporto umano è possibile fra lui e me, ed io lo tratto a mia volta come un superiore, vale a dire subisco il suo potere come subirei il freddo o la pioggia. E da queste ultime è necessario, prima o poi, proteggersi, quanto meno per non ammalarsi.
Quello che mi meraviglia è che non senta la necessità o non veda che il futuro del lavoro e dell'impresa è nel coinvolgimento dei lavoratori, nel chiedere loro di portare se stessi al lavoro, di sentirsi parte integrante dell'azienda, perché gli operai non si sentiranno veramente a casa nella loro patria, membri responsabili del paese se non quando si sentiranno a casa  propria nella fabbrica e mentre vi lavorano. Oggi, per come viene utilizzato e usato, non dandogli nessuna prospettiva di futuro, a l'operaio rimane solo l'energia che permette di compiere un movimento, l'equivalente della forza elettrica; energia che viene utilizzata come viene utilizzata l'elettricità. L'operaio che lavora con  contratto temporaneo, senza fiducia nel futuro, o quello che è nascosto nel lavoro sommerso e senza nessun diritto, o l'operaio del paese in via di sviluppo, senza nessuna tutela, non soffre solamente per l'insufficienza della paga. Soffre perché è relegato dalla società attuale ad un rango inferiore, perché è ridotto ad una sorte di servitù. L'insufficienza del salario è solo una conseguenza di questa inferiorità e di questa servitù.
La questione non è di ordine ideologico e non mira al sovvertimento dei rapporti di potere o di ruolo, ma è la consapevolezza che l'insieme è maggiore della somma dei singoli elementi per cui, per quanto riguarda le fabbriche, la questione che mi pongo, completamente indipendente dal regime politico,  è quello del passaggio progressivo dalla subordinazione totale ad una certa mescolanza di subordinazione e di collaborazione, l'ideale essendo la cooperazione massima, fino al raggiungimento della partecipazione degli operai al capitale sociale.
Sono certo che è difficile, per un imprenditore, mettere in opera certi progetti, specie se non ci sono basi condivise fra imprenditori e, soprattutto, se non esiste la volontà dei governi  a spingere e sostenere un nuovo modo di porsi nell'ambito del lavoro, ma sono certo di avere la sua condivisione quando asserisco di non accettare le forme di subordinazione nelle quali l'intelligenza, l'ingegnosità, la volontà, la coscienza professionale debbano intervenire solo nell'elaborazione degli ordini compiuta dal capo e nelle quali l'esecuzione esige solo una sottomissione passiva, in cui non partecipano né lo spirito né il cuore, di modo che il subordinato non vi ha più parte di una cosa maneggiata dalla altrui intelligenza.





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