domenica 3 luglio 2011

Sono donne e non quote rosa

Su Diritto di Critica leggiamo l'articolo di Paolo Ribichini, Dimissioni in bianco, una petizione contro l'ingiustizia, del quale ne consigliamo la lettura, perché tratta un argomento del quale è un eufemismo parlare di ingiustizia, ma di un vero e proprio crimine.
Ci siamo appena felicitati, ma non gioito, sull'approvazione della legge delle quote rosa nei Cda delle imprese quotate in borsa e a partecipazione pubblica per il fatto che l'unica finalità di questa legge è un tentativo, nel tempo, di instaurare una cultura del lavoro che non badi al genere ma al merito. Un lavoro lungo, difficile, forse improbabile se non si metteranno in atto strumenti paralleli che creino per le donne condizioni di partenza simili a quelle degli uomini. Per assurdo, in un impresa ci potrebbero essere "quote rosa" nel cda e nessuna donna ha lavorarvi al proprio interno. Abbiamo visto, nei post precedenti, come la crisi si riversi sempre più su giovani e donne, tanto che nel Sud quasi il 50 percento di queste ultime sono senza lavoro. Tutto questo rientra nella normalità di un Paese, dove retaggi di cultura patriarcale e cattolica, vedono la donna in casa e dedita alla cura della famiglia. Se poi, per necessità economiche, devono andare a lavorare, non devono mai dimenticarsi che il lavoro fuori dalle mura domestiche è subordinato alla loro naturale condizione di moglie, mamma e figlia. Il vivere quotidiano è un indicatore di tale cultura ed allora non possiamo, fariseicamente, scandalizzarci se un imprenditore decide di licenziare 13 donne su 30 dipendenti di ambo i sessi, "perché intanto per loro è un secondo stipendio e, tutto sommato, si possono dedicare ai figli". Si può decidere per loro perché la cultura dominante approva, perché così è! A cosa sono servite le battaglie per la parità dei diritti, le lotte per l'emancipazione e il diritto di essere donne e artefici di se stesse, se poi ad ogni crisi e senza chiedergli niente gli viene imposto di ricordarsi che sono donne e che spetta all'uomo il ruolo di lavorare e a loro di stare a casa? A cosa è servito o serve spingerle ad istruirsi se poi si deve fare una legge per sfruttare le loro capacità, molto spesso superiori a quelle degli uomini, nella guida di imprese?
In Italia ci sono cose di cui si parla spesso, per poi accantonarle e riprenderle nei momenti un cui servono, senza, per altro, decidere una soluzione o un intervento risolutivo: l'evasione fiscale, il lavoro sommerso, l'economia illegale e la questione femminile. Serve tenerli lì a disposizione e utilizzarli nei periodi di elezione o per mega programmi politici mai realizzabili. Nessun partito ha veramente a cuore e il coraggio necessario per tentare di risolverne almeno una.
A fronte di quanto esposto, la Rete per la Parità invia un lettera ai presidenti di Camera e Senato per affrontare la piaga sociale delle "dimissioni in bianco". Nel 2011 ci deve essere qualcuno  che deve richiamare l'attenzione degli "eletti del popolo" su un fenomeno così grave! Vediamo cosa sono le "dimissioni in bianco", vietate da Prodi e permesse da Berlusconi, per lo più utilizzate per le donne, soprattutto al Sud, ma presenti anche al Nord.
Come scrive Ribichini, le dimissioni in bianco non sono altro che  "Essere assunti e firmare subito la propria lettera di dimissioni. Non una libera scelta ma il passaggio obbligato per molti lavoratori  e soprattutto lavoratrici per poter lavorare [...] Non c'è una data, c'è solo la firma. Così il datore di lavoro si risparmia la fatica di licenziare. E risparmia le indennità per licenziamento senza giusta causa e le parcelle degli avvocati in caso di ricorso. Apre il cassetto e aggiunge una data alle dimissioni. Il rapporto di lavoro si è risolto consensualmente". In tal caso il lavoratore non è licenziato, ma dimissionato.
Nel biennio 2008-2009 800.000 neo mamme hanno dichiarato che in occasione della gravidanza sono state licenziate o messe in condizioni di doversi dimettere. L'Istat sottolinea che le interruzioni del rapporto di lavoro legate alla nascita di un figlio si mantengono su livelli vicino al 15 per cento, la maggioranza dei quali con l'utilizzo delle dimissioni forzate. Poi ci scandalizziamo se nascono meno figli o se le donne sono propense a sposarsi più tardi, a posizione di lavoro acquisita, se crescono i single e se il nostro Paese è "vecchio".  Allora si cercano soluzioni ridicole come il sostegno al primo figlio, anziché impegnarsi a creare condizioni di lavoro per la persona, soprattutto se donna. 
In un mondo in cui tutto è merce, ogni cosa viene con essa misurata e non è fuori luogo parlare di "risorse umane" al pari di "risorse finanziarie o materiali"; di considerare il lavoro come una merce, al pari di ciò che si trova sulle scansie dei supermercati, che si comprano solo quando servono e per la quantità che serve. Quindi è legittimo parlare di "quote rosa", alla stesa stregua delle quote latte,  e non di donne. 





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