lunedì 2 maggio 2011

Lavoro flessibile e vita precaria

Il termine precarietà non connota la natura del singolo contratto atipico, ma la condizione sociale e umana che deriva da una sequenza di essi nonché la probabilità sempre più elevata a mano  a mano che la sequenza aumenta di non poterne più uscire. E' indubbio che i lavori flessibili comportano costi rilevanti a carico dell'individuo, che si ripercuotono sulla famiglia e sulla comunità e per quanto si tenti di dimostrare che una gran parte degli individui sembri averli metabolizzati o addirittura graditi, non possiamo far  finta di pensare che non sussista, comunque , il problema.

Altrimenti come spiegarsi gli oltre due milioni di giovani Neet, quelli che non studiano, non lavorano e non si formano che abbiamo in Italia. Con il tempo, i giovani e meno giovani percepiscono la loro esistenza come fonte di ansia e di incertezza, si sentono defraudati dei loro diritti di cittadinanza e, soprattutto, dovranno fare i conti, quando non saranno più giovani, con progetti di vita ancora da realizzare e con lacune di formazione e professionali che non consentiranno mai un approdo certo ad un lavoro sicuro. 
La precarietà si sostanzia attraverso una lunga serie di contratti a tempo determinato, senza avere la certezza di un lavoro al termine di quello in corso o, al limite, in  un tempo ragionevole. Soprattutto è sentita come una ferita la possibilità che il lavoro a termine non sia l'anticamera per un lavoro a tempo pieno, ma che possa essere una situazione a vita, specie per i lavoratori a bassa qualifica professionale e formativa. Tale insicurezza lavorativa si ripercuote nelle condizioni di vita in quanto il lavoro, e con esso il reddito, è soggetto alla discrezione dell'impresa che l'ha concesso. Ci piace ricordare che cosa sia per Luciano Gallino l'etimo di precario "qualcosa che si può fare solamente in base  a un'autorizzazione revocabile, poiché è stato ottenuto non già per diritto, bensì tramite una preghiera".
Il lavoro precario è riuscito a riportare indietro di generazioni il mondo della vita dei lavoratori, in quanto la normalità della vita lavorativa e della vita stessa viene messa in discussione dalla diffusione dei contratti precarizzanti e tale condizione incide anche sulla mente, tanto che R.Sennett scrive "il capitalismo a breve termine minaccia di corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra di loro e li dotano di una personalità sostenibile".
Trascorrere molto tempo nella precarietà fa sentire se stessi in modo diverso dagli altri, sviluppando atteggiamenti e linguaggi propri. E non ci meravigliano i risultati di noti studi sul comportamento di individui, famiglie e ragazzi, soggetti a prolungata insicurezza lavorativa, magari anche dei genitori, tanto da cominciare a parlare di "figli della precarietà",  evidenziando disturbi della personalità, da cui discendono comportamenti che vanno dalla resa alla rivolta, dal rinchiudersi in se stessi al ricorso alla violenza.
La precarietà non consente di fare progetti di vita familiare, esistenziale e professionale, anzi, la propria vita e il proprio destino sembrano essere in balia di cause che non dipendono minimamente dal loro agire e sulle quali non hanno mezzi o aiuti per intervenire, quasi come radici senza alberi.
Bisogna prendere atto che la maggioranza dei lavori flessibili non danno nessuna esperienza professionale e, tanto meno, è fautrice di esperienze lavorative necessarie per il futuro, basti guardare come vengono accolti nelle aziende o negli studi professionali, almeno nella stragrande maggioranza, gli stage post-diploma o post-laurea per rendersi conto di quanto siano poco significativi per costruirsi una carriera o un'identità lavorativa, elemento, quest'ultimo, di una gravità enorme, considerato che è il fondamento stesso dell'identità personale e sociale. Se a ciò si aggiunge che la possibilità che il lavoro sia quasi sicuramente flessibile, con i suoi onerosi costi personali e familiari, per le donne, per i giovani sotto i 30 anni, per chi ha un titolo di studio basso, per gli immigrati, per chi vive in zone meno sviluppate e per i disoccupati che superano i 45-50 anni e che è ormai una situazione cronicizzata all'interno di questo ambito e che ancora non si è visto un pur minimo tentativo di risolver e la questione, allora non ci rimane che sperare o lottare affinché la politica, il sindacato e l'imprenditoria sana prenda atto di quanto scrive Pierre Bourdieu: "la precarietà impedisce qualsiasi forma di anticipazione razionale e, in particolare, quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è necessario per ribellarsi, soprattutto collettivamente, contro il presente, anche quello più intollerabile [...] per concepire un progetto rivoluzionario, vale a dire un'ambizione ragionata di trasformare il presente in riferimento a un futuro progettato, bisogna avere un minimo di presa sul presente".

Nessun commento:

Posta un commento