domenica 22 maggio 2011

Una seria politica del lavoro

Leggevamo le dichiarazioni del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in occasione della commemorazione del giuslavorista Massimo D'Antona diceva:"Oggi più che mai occorre un diritto del lavoro inclusivo ed equo, attento alla tutela dei diritti della parte più debole contrattualmente e alla riaffermazione rigorosa dei relativi doveri per salvaguardare insieme crescita economica e coesione sociale". 
Qualche giorno prima, leggevamo quanto scriveva il Direttore Generale dell'Ilo, Juan Somavia, circa la discriminazione sul lavoro: "periodi di difficoltà economica costituiscono un terreno fertile per la discriminazione nel lavoro e, più in generale, per le società stesse".








Premesso che noi siamo decisamente contro la flessibilità del lavoro e che troviamo assurde tutte quelle forme atipiche di lavoro messe in pista, quando basterebbero, anzi, sono già sufficienti tre forme tradizionali: tempo indeterminato, tempo determinato e part-time. L'obiettivo primario è il tempo indeterminato; l'obiettivo intermedio, gestito equamente e con intelligenza, per introdurre i giovani al mondo del lavoro e il part-time per andare incontro a esigenze personali e/o familiari e, comunque, tipologia volontariamente scelta e non imposta.
Fatte le dovute premesse, non possiamo far finta che il lavoro flessibile non esista o che non se ne faccia sempre più uso o che i governi, pur di creare posti di lavoro, sono pronti a concessioni ignobili al capitale, sempre più internazionale e non gestibile dai governi nazionali. Non dimenticandosi mai che l'obiettivo primario dovrà essere sempre il lavoro a tempo indeterminato, dovremo studiare, applicare e proteggere una seria politica del lavoro che tuteli il lavoro flessibile. A tal fine ci siamo riletti Il futuro del lavoro di Alain Supiot per capire cosa si deve o dovrebbe fare per "portare" il lavoro flessibile a diventare "dignitoso"o, meglio ancora, "una possibile opportunità temporanea".
A cose normali, in un contesto di incertezza, una politica del lavoro dovrebbe fondarsi su una convenzione di fiducia tra datore di lavoro e lavoratori, ma perché ciò possa avvenire deve essere riconosciuta la libertà di azione al singolo e che abbia i mezzi a disposizione per renderla effettiva e ciò vale per l'imprenditore, nella "garanzia della proprietà dei suoi beni e libertà di gestione", come per i lavoratori "nella garanzia di sviluppo del capitale umano e libertà effettiva di azione". Affinché il lavoro sia compiuto c'è necessità di una governance , il cui punto centrale riguarda i sistemi di protezione sociale e giuridica del lavoro. Ora, se questo sistema si basa su principi di giustizia considerati legittimi dalle diverse parti, "se è stato fatto oggetto di un accordo fondato su questi principi, se esso definisce in anticipo la suddivisione dei rischi, dei costi e delle responsabilità, se esplicita la ripartizione dei profitti attesi da un esito positivo delle azioni intraprese" allora il coordinamento fra gli attori è sicuramente efficiente.
Vi è molta letteratura, in Europa, che addossa la responsabilità degli alti tassi di disoccupazione e dei bassi livelli di creazione di impiego alla rigidità dei mercati del lavoro e ai costi eccessivi dei sistemi di protezione sociale, che farebbero lievitare i costi del lavoro, ma ciò non si riscontra nell'esame delle statistiche nazionali, specialmente se si leggono le comparazioni dell'Ocse circa le percentuali di Pil destinate al finanziamento della spesa sociale. E' evidente che tale percentuale è un costo, ma dovrebbe essere concepito come investimento in capitale umano che, come ogni altro investimento, se ben fatto, "genera un accrescimento delle ricchezze e una creazione di occupazione".  Basti guardare ai paesi più ricchi della Comunità europea che possono pagare un miglior welfare e si noterà una maggiore produttività della popolazione attiva.
In un'economia flessibile è necessario creare, mantenere e sviluppare competenze lavorative che non sono innate, ma che devono essere alimentate con esperienza, quindi è estremamente necessario un adeguato quadro giuridico e sociale. Per imparare, il lavoratore flessibile "ha bisogno di un quadro di sicurezza di fronte ai rischi" affinché ognuno abbia sempre la possibilità di fare previsioni sul lungo termine. E combinare in modo positivo flessibilità e sicurezza lo si potrebbe fare solo con una politica del lavoro centrata "sulle traiettorie di vita e di impiego delle persone, capaci di migliorare il capitale umano dell'individuo e ne aumenti le capacità di guadagno". Non ultimo dovrà soddisfare specifici bisogni sociali, considerati come standard minimi, che non riguardano esclusivamente un reddito minimo, ma anche la possibilità di avere un posto in cui abitare.
La differenza fra una politica del lavoro e le politiche per l'occupazione è nel creare delle continuità e non gestire delle liste di attesa; la spesa sociale serve per "inserire e mantenere"il lavoratore nella sfera lavorativa, invece di attivarsi dopo il rischio e di "gestirne le conseguenze". Passare da aiuti finanziari concessi ai datori di lavoro per incentivarli all'occupazione ad un aiuto ai singoli individui per sviluppare le loro capacità lavorative. Ci sono troppi esempi di sovvenzione agli impieghi dove si è dato vita ad una competizione al ribasso anche fra regioni europee, dando alle aziende la possibilità di decidere delocalizzazioni a seconda di dove trovavano minori costi del lavoro, procurando distorsioni nella concorrenza e dumping sociale. Non è infrequente che una tale situazione, con la scarsità degli impieghi, renda i processi di selezione all'ingresso più competitivi e, come rileva Supiot, "gli impieghi sovvenzionati sono ad appannaggio, per lo più, non di disoccupati senza qualifica, ma di candidati più qualificati [...] tra due candidati, allo stesso impiego, un'impresa tenderà [...] a parità di costo, ad assumere quello più qualificato", determinando un'esclusione dei lavoratori a scarsa qualifica e depotenziando le competenze dei più qualificati; senza contare che ciò porta ad un ribasso dei salari.
Tutti siamo consapevoli che maggiori sono i posti di lavoro, più ci sono opportunità di impiego, maggiori sono le sicurezze di vita e minori i costi per il finanziamento dei sistemi di sicurezza; per cui è facile intuire che il "miglior sistema di welfare è quello che poggia sulla creazione di occupazione, che, a sua volta, dipende dalla creazione di attività, competenze e ricchezze nuove". Un cane che si morde la coda. Quindi una politica del lavoro non deve limitarsi esclusivamente alle carriere individuali, ma deve disporre di  quadri normativi adeguati, forniti dalle politiche nazionali ed europee, finalizzate al miglioramento dell'efficienza collettiva. E' a tal fine che assumono rilevante importanza l'innovazione e la ricerca; la formazione professionale e continua; la necessità di infrastrutture collettive, la creazione di reti di imprese e di attori collettivi; di dispositivi che favoriscano la mobilità professionale e la creazione di impresa. Terminiamo lasciando la parola a Supiot :" Il coordinamento tra prospettive individuali e bisogni collettivi potrà realizzarsi attraverso quello che è necessario diventi un imperativo politico [...] assicurarsi che gli individui restino, lungo tutta la loro vita, in uno status professionale  che garantisca l'efficienza e lo sviluppo delle loro competenze lavorative".



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