mercoledì 7 novembre 2012

Nella tempesta della crisi, il lavoro è il faro


E' ormai appurato e da i più denunciato che la mancata crescita globale e la diffusa disoccupazione e sottoccupazione provochino disastrose conseguenze per miliardi di persone nel mondo. Guy Ryder , Direttore Generale dell'Ilo, non solo le richiama all'attenzione, ma evidenzia pure che la disoccupazione globale è aumentata di 30 milioni di persone rispetto all'inizio della crisi, senza contare che da allora 40 milioni hanno smesso di cercare lavoro. Dei 200 milioni di disoccupati, 75 milioni sono giovani donne e uomini sotto i 25 anni. Se consideriamo che la forza lavoro cresce, ogni anno, di 40 milioni di persone,  diventa drammatico pensare cosa succederà in un prossimo futuro se non si correrà ai ripari. Si tenga presente, inoltre, che fra quelli occupati 900 milioni di donne e uomini non superano la soglia di povertà giornaliera dei 2 dollari. La cosa tragica è che se il trend pre-crisi fosse continuato, oggi si parlerebbe di 55 milioni di poveri in meno. Ciò dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che le misure di austerità hanno provocato un danno molto più profondo di quanto previsto.

Secondo il rapporto della Banca Mondiale  sullo stato dello sviluppo sociale (World Bank's World Development Report 2013) "il lavoro è elemento fondamentale dello sviluppo ed è per questo che sarà necessario focalizzare le politiche sull'occupazione con l'obiettivo di creare almeno 600 milioni di nuovi posti di qualità nei prossimi 15 anni". Se, da una parte, creare occupazione di qualità è da considerarsi come pilastro dello sviluppo sostenibile; dall'altra, è incontestabile, come rileva la Confederazione Internazionale dei Sindacati (Ituc), che : "il lavoro di bassa qualità, salari miseri, disoccupazione, discriminazioni e violazioni dei diritti di associazione e di contrattazione collettiva sono stati, molto spesso, i risultati [del fallimento della deregolamentazione del mercato del lavoro], creando il fenomeno dei "working poors (lavoratori poveri), con il contestuale aumento della tensione sociale, del dumping salariale e una riduzione dei consumi". A tal proposito, secondo un'indagine della Coldiretti, nel 2012, in Italia, l'incremento delle persone costrette a ricevere cibo, è aumentato del 9%, che è il massimo dell'ultimo triennio, passando da 2,7 milioni del 2010 ai 3,7 milioni (3.686.942) dell'ultimo anno. Un vero e proprio salasso per l'intero sistema economico e lo specchio che riflette la terribile immagine dell'imponente numero di italiani senza risorse sufficienti a sfamarsi! Ritenere che la protezione sociale di base non sia un diritto dell'uomo, soprattutto sapendo che con solo il 2% del Pil mondiale la si garantirebbe a tutti i poveri del mondo, diventa un crimine solo a pensarlo.
Come se tutto ciò non bastasse, si deve prendere in considerazione il fatto che in molto paesi che hanno alti livelli di disoccupazione giovanile si trovano, al tempo stesso, ad affrontare l'invecchiamento della loro popolazione. Se poi consideriamo che il numero delle persone che hanno 60 anni e anche di più cresceranno di 10 volte nell'arco di soli 150 anni (da 204 milioni nel 1950 a 2,8 miliardi nel 2100), allora diventa prioritario riflettere che non esiste solo il problema dei "giovani"! Non ci stancheremo mai di evidenziare che non è nella lotta generazionale o nelle più o meno accurate rottamazioni che si risolve la questione, ma programmando le uscite dal mondo del lavoro e avendo cura di mappare e gestire le attività lavorative necessarie e utili ai lavoratori e al mercato. Superficialmente si ritiene che mandando a casa i vecchi, i giovani potrebbero prendere i loro posti: innanzi tutto, c'è da tener conto delle specifiche competenze acquisite nell'arco degli anni dai più anziani; poi c'è l'incostanza dei numeri di posti lavoro in funzione dell'andamento del mercato, che non garantisce che per  un vecchio che lascia ci sia un giovane che prenda. Volenti o nolenti i giovani e gli anziani sono "due facce della stessa medaglia". E' solo attraverso la creazione di posti di lavoro che si risolve il problema, magari con lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza, in caso contrario diventa una lotta senza quartiere fra poveri e più poveri...con la poco lusinghiera possibilità che spariscano i "più poveri" e diventino tutti "poveri"! 
Il "rigore" non paga, anzi, ha fatto più danni e non serve nascondersi dietro la "rinnovata credibilità internazionale, pur amareggiati delle severe decisioni prese"; è  necessario creare un nuovo ottimismo, che darebbe energie nuove e necessarie per togliersi da lo stato di "apatia" in cui sembra sostare il Paese; servono nuovi stimoli a far sì che ci si rimbocchi di nuovo le maniche, ma è necessario invertire i traguardi negativi che collezioniamo ogni giorno: a ottobre la Cig è aumentata del 19,3% su settembre e del 20,6% rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Dall'inizio del 2012 sono 895 milioni le ore autorizzate, 974.094 le domande di disoccupazione e 100.860 di mobilità. Secondo un'indagine del Centro Europa Ricerche e Ires, nel 2014 il reddito disponibile delle famiglie italiane sarà sceso del 10% rispetto al 2007, per una perdita totale di 90 miliardi di euro. Parlare di recessione è veramente un eufemismo...forse sarebbe meglio dire, come sostiene il segretario confederale Danilo Barbi, che  si tratta di "una vera e propria depressione economica".
Facendo proprie le parole del Direttore Generale dell'Ilo, Guy Ryder, è il lavoro il vero strumento di trasformazione; è l'occupazione che può dare slancio allo sviluppo e che solo attraverso il lavoro si può combattere il flagello della povertà. 
Nella tempesta della crisi il lavoro è il faro.

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