domenica 4 novembre 2012

Crescita ed equità: sorelle,sorellastre o nemiche?

Da quando si è scatenata la controffensiva del capitale (o dei  "dominanti", come li chiama Luciano Gallino) contro il lavoro, uno degli elementi che maggiormente risalta agli occhi e tocca sensibilmente le tasche e la vita dei lavoratori è l'iniqua redistribuzione dei redditi dal basso verso l'alto, con le relative disuguaglianze sociali a livello globale.
Per la nostra analisi, ci avvarremo di alcuni dati estratti dal libro di Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, e, in modo particolare, facendo riferimento al capitolo VI, La redistribuzione del reddito dal basso verso l'alto, saccheggiando i tratti più importanti e liberando l'autore da nostre cattive o arbitrarie interpretazioni.

I dati statistici, spesso noiosi e freddi, se accorpati e ben sistematizzati, danno l'idea esatta della consistenza di ciò che si vuole trattare.
La disuguaglianza è data dal rapporto quanto a reddito e ricchezza tra individui del pianeta, di un continente o di una nazione ed uno dei due indicatori è dato dalla riduzione della quota salari sul Pil. Si noti che nei 15 paesi più ricchi dell'Ocse, tale quota è scesa, in media, di 10 punti, passando dal 68 al 58%. In Italia, nota per i suoi record negativi, è scesa di 15 punti, raggiungendo il vergognoso valore del 53%. In linea di massima, 15 punti di Pil corrispondono a circa 240 miliardi di euro, soldi che dovrebbero essere distribuiti fra tutti i lavoratori, autonomi compresi. Erroneamente si sostiene che la diminuzione della quota salari sia dovuta  ai contributi volontari o ai prelievi, invece le cause di un simile collasso è dovuto esclusivamente alle "rendite e ai profitti".
L'altro indicatore si ricava dal livello di consumo pro capite, facendo riferimento a dati statistici forniti dalla Banca mondiale su prezzi, consumi, povertà  e distribuzione della ricchezza, relativamente a dati comparati di 148 paesi. Tanto per dare un'indicazione della povertà a livello mondiale, nel 2009 la Banca mondiale ha rilevato che i poveri "assoluti", composti da chi vive con 1,25 dollari e con 2 dollari al giorno, sono nel primo caso 1,4 miliardi e i secondi (che comprendono anche i primi)  2, 6 miliardi di persone. 
Se poi andiamo a leggere i dati statistici del 2002 (in attesa di dati più aggiornati!), sempre della Banca mondiale, si evidenzia che il decile (decimo) più povero della popolazione mondiale (620 milioni di persone) percepiva lo 0,61% del reddito globale, mentre il decile (decimo) più ricco ne percepiva il 57,5%! Con un certa dose di masochismo, vediamo come si amplificano le differenze se si confrontano i 5 decili (metà dei precedenti) più poveri della popolazione mondiale, che non percepiscono neppure il 7% del reddito globale, con i 2 decili della popolazione più ricca che se ne abbuffa il 77%!  A sostegno della tesi della scomparsa della classe media, basta guardare i 3 decili che stanno in mezzo, perché si ricava immediatamente che il terzo centrale percepisce un reddito di circa un sesto di quello globale (16%).
Se invece del reddito consideriamo la ricchezza, la disuguaglianza diventa abissale.
Secondo uno studio dell'Istituto di ricerca del Credit Suisse, nel 2010 lo 0,5% della popolazione mondiale adulta (24 milioni di persone) deteneva una ricchezza di oltre 69 trilioni di dollari, cioè il 35% della ricchezza totale del mondo! Ciascuno dei componenti dello 0,5% possiede, in media, una ricchezza 1077 volte la ricchezza di ciascuno dei tre miliardi che costituiscono oltre i due terzi della base di essa.
Tanto per parlare del nostro Paese: la metà della popolazione (i 5 decili della parte inferiore della scala) possiede soltanto il 10% della ricchezza nazionale, mentre il il decile più ricco, da solo, ne possiede il 50%. Si tenga conto, inoltre, che di quei 24 milioni di iper-ricchi sopra citati, ben il 6% (1,5 milioni) sono in Italia. Se il patrimonio di questi ricchissimi fosse stato assoggettato ad una contenuta patrimoniale permanente di 3000 euro in media, si sarebbero raccolti circa 4,5 miliardi di euro l'anno, equivalenti, più o meno, ai tagli della pensione dei lavoratori dipendenti decisi dal governo Monti.
Nel 2008, l'Ocse poneva l'Italia con il sesto più grande gap tra ricchi e poveri; rilevava, però, che il cuneo fiscale (la differenza tra il costo del lavoro sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta) fosse il 10% più elevato della media degli altri paesi, il che avrebbe dovuto creare una maggiore equità (redistribuzione). Tuttavia le classifiche Ocse ponevano l'Italia agli ultimi posti nell'efficacia distributiva dell'intervento pubblico.  
Solo un'apparente contraddizione!
Negli ultimi vent'anni, la politica ha ignorato o combattuto le politiche redistributive, basti ricordare gli attacchi al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. L'Italia è l'unico Paese in cui la retribuzione del lavoratore viene tassata con aliquota iniziale del 23% e i guadagni da capitale solo dal 2011 sono tassati al 20% (e fino a tale data al 12,5%). Se si tiene conto dell'aumento dell'attività finanziaria degli ultimi trent'anni è logica conseguenza il favorire la concentrazione dei redditi verso l'alto, mentre i salari, in termini reali, sono stati praticamente stagnanti (un leggero aumento del 3-5% rispetto al 1995), mentre negli altri paesi sono oscillati tra il 15 e il 25%, sempre rispetto al 1995.
Se guardiamo la distribuzione del prelievo fiscale in forma di imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), la cosa diventa eclatante: alla fine degli anni ottanta le entrate da lavoro dipendente erano il 40% delle entrate totali e oggi sono al 60%. Quelle relative al lavoro non dipendente si è ridotta da poco meno del 38% a circa il 10%! Il restante 30% dell'Irpef è pagato dai pensionati (i quattro quinti sono ex lavoratori dipendenti) così che restituiscono allo Stato, sotto forma di Irpef, circa 3 punti di Pil, pari, nel 2009, a oltre 45 miliardi. Come scrive Gallino: "Sarebbero questi i parassiti che hanno portato ad un aggravamento smodato del debito pubblico"!
Se poi vogliamo infierire, tanto per ricordarci del sistema danese e tanto caro al senatore Ichino e renziano di ultim'ora, sulla scarsa efficacia redistributiva dell'azione pubblica è giusto evidenziare che il nostro Paese spende nei servizi alla famiglia sino a 5-6 volte meno dei paesi scandinavi e, comunque, molto meno di Germania e Francia.
Ci siamo chiesti se crescita ed equità siano sorelle, sorellastre o nemiche. Impossibile che siano sorelle se le teorie neoliberali, sposate anche da una certa sinistra, ritengono che vi sia conflitto tra efficienza ed equità  di un sistema economico. Anzi, le disuguaglianze di reddito sono viste come fonte di stimolo e incentivo al maggior impegno degli individui. L'uguaglianza nella distribuzione dei redditi è vista come un danno per la crescita economica e potrebbe ridurre l'impegno lavorativo...solo a pochi è stato fatto dono divino della perseveranza nella ricchezza, senza esitazioni o rallentamenti all'accumulazione. il lavoratore è come l'asino...la biada ogni tanto e dopo aver lavorato...e pure non troppa, altrimenti si impoltronisce! 
Indubbiamente che ci siano diversità retributive accettabili tra posizioni lavorative, tra chi ha studiato, quindi investito anni di studi e soldi, e chi no o tra posizioni di comando e altre di manualità sono nella norma, ma come si spiegano le differenze di 300-400 volte lo stipendio medio di un manager rispetto al salario medio di un lavoratore, quando un tempo arrivavano al massimo a 40 volte? E' mai possibile che un manager possa generare un valore aggiunto pari o superiore a 400 operai? Se l'esempio, il primo che passa per la mente, è Sergio Marchionne...è evidente che la risposta è assolutamente negativa! Il problema, purtroppo, è che oggi la finanziarizzazione dell'impresa pone al centro dell'importanza il "valore di mercato dell'impresa" e non il saper produrre oggetti o servizi utili, perché è solo il primo che aumenta il valore per l'azionista...contento, poi, di pagare cifre astronomiche al proprio manager.
Un tempo, nei decenni seguenti la seconda guerra mondiale, nel famoso trentennio d'oro del lavoro, la politica e l'economia avevano il pubblico scopo di produrre sicurezza socio-economica: l'aumento delle pensioni, lo sviluppo dei sistemi sanitari nazionali, le politiche industriali sostenute dallo Stato ecc, erano indirizzate a produrre sicurezza. Oggi, con la finanza che la fa da padrona e per la quale il profitto viene prima della sicurezza sociale; la controffensiva delle classi dominanti, che vogliono riprendersi ciò che per diritto divino gli era stato conferito e, in seguito,  parzialmente tolto al grido di uguaglianza; il peggioramento dei conti pubblici, non dovuti certamente alle maggiori uscite dello Stato sociale, bensì alle minori entrate fiscali che i governi hanno accettato o voluto, d'accordo con la finanza e attraverso le politiche di austerità, queste politiche sono state abbandonate.
L'importanza di creare profitti, ad ogni costo e prima di ogni cosa, ha fatto sì che le politiche del lavoro producano insicurezza in nome della competitività. Sono stati così abili da spostare lo "scontro" tra chi aveva la sicurezza del salario, che oggi viene meno, e l'insicurezza di coloro che quella sicurezza non l'hanno mai conosciuta. Hanno scatenato una guerra tra poveri e le giovani generazioni, a noi tanto care, hanno abboccato. In particolar modo le nuove élites di giovani rampanti  o modesti rottamisti. Sfruttando la globalizzazione hanno posto il miliardo e mezzo di lavoratori poveri in contrapposizione al mezzo miliardo di lavoratori relativamente "benestanti", obbligando questi ultimi a condizioni peggiorative e non i primi a condizioni migliorative. Le nuove élites predicano i vantaggi acquisiti dai contadini filippini, indiani, vietnamiti o cinesi, in termini di miglioramento di vita, ma omettono che sono passati dalla povertà assoluta (quasi schiavitù) al pochi dollari al giorno e che tutto ciò ha scardinato il modello sociale europeo. Omettono di dire che se è vero che se i "nuovi lavoratori globali" hanno preso qualche dollaro, ciò è andato a discapito di quelli occidentali, che progressivamente si stanno avvicinando alle loro pessime condizioni di vita. Il pensiero neoliberale vorrebbe un livellamento verso il basso delle retribuzioni o, comunque, tenere in ostaggio la maggior tecnica dei lavoratori occidentali con il ricatto delle dislocazioni. Scrive Gallino:"L'obiettivo è palese: far incontrare i due mondi del lavoro sulla parte inferiore della scala anziché su quella più alta". Se è vero, come ritiene il pensiero neoliberale, che il "capitale sa sempre dove saggiamente dirigersi per produrre il miglior risultato, perfino nel campo della protezione sociale, si tratti di pensioni, sanità o sostegni al reddito", sarebbe interessante farci spiegare del perché, con le loro idee,  la crisi che ci attanaglia dal 2007 non trova soluzioni! Ci ha tanto confortato leggere l'articolo su Economia e Politica circa le lezioni  da riscrivere per imparare l'economia.
Appurato che crescita ed equità dovrebbero avere una stretta parentela, perché almeno  possano diventare sorellastre, è necessario un cambio radicale, politico e culturale, e che l'economia reale riprenda il sopravvento su quella di carta. Soprattutto è necessario che le nuove e vecchie generazioni uniscano le loro forze per un futuro diverso: che la persona ritorni al centro del lavoro e della politica!



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