venerdì 25 novembre 2011

Facciamo qualcosa di serio per i giovani!

Il professor Woland, su La città Invisibile, descrive come si potrebbe rendere il "sistema politico più sensibile agli interessi delle giovani generazioni", non dimenticandosi di rimarcare che la nostra società è governata da anziani in ogni ambito lavorativo. In Democrazia e gerontologia descrive un possibile metodo, il Demeny voting, di Paul Demeny, professore emerito di scienze politiche all'Università di Yale. Il caro professor Woland, che seguiamo con attenzione e passione, solleva la questione della rappresentanza e del futuro dei giovani, rilevandone l'importanza e l'urgenza, evidenziando quanto sia importante affrontare seriamente la questione, perché, per quanto si nasconda la testa o ci si bendi gli occhi, il futuro è loro! Si potrà sperare nel futuro del Paese solo se avremo preparato adeguatamente i giovani a governarlo e, soprattutto, ad amarlo.
Secondo il professor Demeny, i minori non devono essere privi di rappresentanza e di diritti fino alla maggiore età, per cui ai genitori dovrebbe essere dato un voto delega, del valore di mezzo punto per ogni genitore (tanto per rispettare le eventuali diversità politiche tra i genitori) per ogni figlio a carico.
Non siamo molto convinti del Demeny voting, perché non riusciamo a vedere quali vantaggi rappresentativi possano essere raggiunti (ammettiamo anche il nostro limite culturale!), se non quello di accentuare le eventuali diversità politiche dei genitori, che non sempre rispecchierebbero il pensiero, forse non ancora pienamente politico, dei loro figli. Iniziative a sostegno della rappresentanza giovanile ce ne sono e se ne potrebbero inventare ancora di più, ma è necessario chi ci sia la volontà di attuarle e, soprattutto, che la si senta come una necessità più che come un dovere.  Quelli della mia età hanno tolto la speranza ai giovani e deve essere di questi l'impegno a ridargliela. 
Come succede in ogni cambio generazionale, i linguaggi, le speranze, i disegni futuri e le ambizioni sono diverse (chi non ricorda lo scontro dei capelli lunghi, dei pantaloni a zampa di elefante su camicie a fiori o il rifiuto del modo di pensare dei matusa), ma una cosa unisce ogni generazione, fatto salvo l'avanzamento tecnologico, la necessità di lavorare per organizzare e decidere della propria vita. Noi abbiamo preteso di cambiargli il mondo, di farli studiare perché non facessero i nostri lavori, perché avessero una vita migliore, proteggendoli contro tutto e tutti, dimenticandoci che anche le avversità fanno parte della vita, anzi, talvolta la fortificano. Siamo andati oltre il compito proprio dei genitori, con la presunzione di pianificargli la vita, con il risultato finale di non avergli insegnato che la vita è "battaglia e conquista giornaliera". Adesso i giovani l'hanno capito e tornano a chiedere i loro diritti... e questo ci crea imbarazzo e paura, perché non sappiamo cosa rispondergli! Eppure sarebbe molto semplice: lasciamo che si gestiscano la vita, rimanendo dietro le quinte o lottando con loro affinché riescano a conquistarsi le loro opportunità.
Noi possiamo solo aiutarli a proporre strumenti o mezzi per dargli la possibilità di maturare, ma non possiamo regalargli il futuro...quello se lo devono costruire! Ma per farlo dobbiamo lasciare loro lo spazio necessario. L'errore madornale della nostra generazione, o di quella precedente, consiste nel convincimento che i giovani non siano all'altezza della situazione o, ancora peggio, che non abbiano la volontà e i mezzi per fare ciò che abbiamo fatto noi. Siamo convinti che siano nati nel benessere e che non abbiano la grinta necessaria per far fronte alle insidie che potrebbero incontrare lungo la strada. Siamo convinti di essere insostituibili, senza pensare che, prima o poi, lo saremo, anche solo per un fatto biologico. Non siamo eterni e ciò ci dovrebbe far capire quanto sia importante costruire in tempo, per poi farci da parte, una generazione che abbia l'esperienza necessaria per continuare la perenne opera della trasmissione delle esperienze e della continuità della vita.
Non è attraverso la Demeny voting che si costruisce la "rappresentanza giovanile", che si portano a maturazione le loro volontà e i loro desideri, ma ci vogliono strumenti più incisivi e partecipanti, lasciando da parte la paura di "cedere il posto". 
Chi scrive, nei primi anni '90, fece il suo primo, e pure l'ultimo, ingresso in politica partecipando ad una lista civica. Uno dei progetti presentati, e che ci stava molto a cuore, riguardava l'elezione di una "giunta ombra" che lavorasse a fianco della giunta comunale. I componenti dovevano essere tassativamente giovani, frequentanti le scuole superiori, università o giovani lavoratori, in modo che si facessero esperienza nel campo dell'amministrazione cittadina. La lista civica non ottenne un grande successo, ma la partecipazione giovanile fu numerosa ed esaltante.
Sempre in quegli anni, durante una riunione all'Api (associazione piccole industrie), ci venne l'idea di una proposta alquanto bislacca e, pertanto, accantonata, di coinvolgere gli studenti universitari in progetti aziendali. Anziché utilizzare gli studenti in stage non pagati, insignificanti e mal gestiti, proponemmo il seguente progetto: ogni azienda, in funzione del proprio indirizzo produttivo e in base alle capacità economiche e con il supporto dell'università, doveva costituire un gruppo di lavoro, composto da più discipline (ingegneria, sociologia, psicologia, economia e commercio ecc) che facesse uno studio di una vera e propria ristrutturazione aziendale. In pratica, ogni studente, in funzione delle proprie competenze, doveva suggerire la propria idea. Tutte queste idee dovevano confluire in un unico progetto finale da consegnare all'azienda. Naturalmente il progetto prevedeva: un compenso, come borsa di studio; il supporto del personale interno; un tutor a disposizione per l'intero progetto, che doveva essere messo a disposizione dall'azienda; periodici incontri in azienda, in modo che la potessero vivere dall'interno e non solo attraverso i racconti del tutor; e quest'ultimo aveva il compito esclusivo di coordinare le attività, ma non doveva in nessun modo essere di "indirizzo".  Impegnativo, certo! Ma si sarebbero raggiunti più obiettivi: primo, l'avvicinarsi dell'università al mondo del lavoro in modo concreto; secondo, stage finalizzati alla conoscenza e alla partecipazione effettiva al lavoro; terzo, avrebbero svolto un effettivo e importante ruolo nell'ambito aziendale; quarto, la sicura maturazione nelle realtà aziendali, che oggi sono viste, per la maggior parte delle volte, dalle fotocopiatrici o da lavori a loro non consoni.
In anni successivi, e viste le difficoltà a ridurre l'età per votare, ci venne in mente, utilizzando il sistema scolastico e altri centri delegati, di creare il "voto di indirizzo giovanile": una vera e propria votazione in cui fosse espresso il pensiero giovanile nei vari ambiti di interesse: come ad esempio la scuola, il lavoro, la politica, la società ecc.
Sono solo alcuni esempi, forse anche maldestri, ma che hanno come scopo il vero inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, di come vorrebbero la politica e la società; soprattutto, vogliono essere strumenti pratici di inserimento e di rappresentanza effettiva. Dare ai genitori la loro "rappresentanza" non da ragione della loro effettiva espressione, perché non tutti i genitori sarebbero così democratici da riportare esattamente ciò che i giovani sentono o vogliono.  
Non basta costruire stage per avere studenti preparati, ma è necessario che siano fatti in modo intelligente, controllato e, soprattutto, che le aziende li vedano come una missione, oltre che un possibile guadagno. Non è possibile che da un gruppo di studenti, che fanno un progetto di ristrutturazione aziendale, non esca "una" sola buona idea! Spesso è più facile che una buona idea venga vista da un esterno, preparato in materia,  che non da interni ormai fossilizzati sul loro quotidiano. Quella "sola buona idea" vale le borse di studio messe a disposizione; vale anche perché costruisce giovani per il futuro delle aziende; vale perché l'incontro fra giovani studenti e lavoratori genera solo linfa nuova; vale perché è coinvolgendoli  attivamente che si costruiscono il futuro delle imprese e non lo si fa, certamente, "usandoli" alle fotocopiatrici o a sistemare nei faldoni le varie fatture o bolle di accompagnamento. 
Se vogliamo veramente dare una mano ai giovani, si deve avere la pazienza di insegnargli, la costanza di dargli la nostra esperienza, lasciandogli la possibilità di confrontarla con la loro; il desiderio di mandarli avanti, unitamente al piacere del coraggio di fare noi un passo indietro affinché loro possano farlo in avanti. Ormai tutti parlano dell'esigenza di "guardare" al mondo giovanile, ma non tutti vanno oltre "al guardare"!
Per i giovani, perché abbiano il coraggio di guardare con ottimismo e forza al futuro, anche se molto incerto e per i meno giovani, perché ritrovino l'entusiasmo ad affiancare i primi, riportiamo ciò che scriveva Adriano Olivetti:"Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorare. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande". 








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