domenica 12 febbraio 2012

L'equità? Normalizzare la precarietà.

Talvolta nasce il dubbio di scrivere cose non dettate da sufficiente conoscenza e, soprattutto, dalla paura che siano condizionate da forti emozioni.  A chi ha lavorato  quasi tutta la vita con il posto fisso e ha lottato perché tutti lo avessero, soprattutto i giovani, sentirsi poi  parte dei lavoratori "iper protetti", causa dell'attuale apartheid del mondo del lavoro, certamente tutto ciò lascia un profondo senso di amarezza, ma genera anche sentimenti di ostilità verso i nuovi profeti, che hanno la presunzione di avere le certezze per un futuro migliore. Ciò che i nuovi profeti vogliono far passare è che il domani, dominato da incertezze, lo si combatte solo se si assume la consapevolezza che lo si può combattere solo adattandosi ad esse. 

Su Rassegna.it, Massimiliano Smeriglio fa alcune considerazioni sull'ultimo libro di Pietro Ichino, Inchiesta sul lavoro, e non è esagerato affermare che l'autore ritiene che l'articolo 18 si il "male assoluto" e l'unica fonte del mancato lavoro ai giovani e del mancato avvento di fabbriche straniere nel nostro Paese, "...più della corruzione, della illegalità, dell'assenza di strade, di trasporti su ferro, di interi territori controllati dalla criminalità organizzata poté l'articolo 18 nel dissuadere gli investimenti stranieri". Quindi l'incertezza del lavoro la si deve combattere con sistemi "incerti" e allora "...non c'è bisogno di stendere i diritti e tutele per vincere la precarietà e riconsegnare alle persone la possibilità di scelta, autonomia e indipendenza. Basta generalizzare la precarietà. Tutti precari, tutti licenziabili, tutti uguali, fine del regime duale". Lasciamo perdere, poi, il riferimento al modello danese, che è assolutamente lontano anni luce da noi e che la sua attuazione non farebbe neanche discutere sul famigerato articolo 18. Il problema reale è, semmai, che si vuole tendere a liberare il lavoro dai vincoli di protezione, per meglio gestirne il tempo e le condizioni, indebolendo, conseguentemente, anche i sindacati.
Il Governo Monti  si è presentato con lo slogan 'equità e crescita' per poi perderlo lungo strada.
Niccolò Cavalli ha intervistato, per l'Inkiesta.it, il professor Giorgio Lunghini, ordinario di Economia politica all'Università di Pavia e accademico dei Lincei, e nell'articolo, Per salvare l'Italia Monti faccia cose di sinistra, del quale si consiglia la lettura, l'accademico dichiara: "E' vero che il vincolo di bilancio è un problema reale, ma l'equità e la crescita lo sono altrettanto, anche perché le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l'economia non cresca da almeno dieci, quindici anni".
Ci può stare che professori di materie diverse non si trovino concordi con le politiche da apportare per risolvere la crisi, quindi andiamo a vedere la situazione in Europa, dove non si perde tempo in discussioni senza senso intorno ad un falso problema come l'articolo 18!
Secondo il dossier pubblicato dall'Eurostat, quasi 15 milioni di italiani sono a rischio di povertà: il 24,5% della popolazione può finire nell'esclusione sociale e il 6,9% vive in "condizioni di severe privazioni materiali".  Ma da noi c'è l'articolo 18 e sono plausibili certe condizioni. Ma che dire delle 115.479.000 persone che sono nelle stesse condizioni in Europa? Nella Ue non c'è il maledetto vincolo dell'articolo incriminato. Allora sorge un dubbio: ma vuoi che le cause siano altre? E, soprattutto, che forse sarebbe necessario spendere soldi, energie e intelligenze a creare lavoro anziché perdere tempo a ricercarne vincoli limitanti? 
Ciò che i nostri politici, i nostri professori e i nostri nuovi profeti dovrebbero avere sempre come obiettivo sono "equità e crescita", senza le quali non potrà esserci di nuovo un futuro. Senza creare lavoro non sono necessarie le regole per gestirlo, perché la limitatezza dello stesso farà da regolatore: lavoreranno i più bravi, dopo la fuoriuscita del nostro 5% migliore che andrà ad arricchire altri paesi, i figli dei potenti, i raccomandati e gli altri si spartiranno ciò che rimarrà. Se non si aumenteranno le "ore di lavoro" l'unica soluzione è spartirsi quelle che ci sono, rendendo solo più poveri tutti, perché il capitale e la finanza non spartiranno mai i loro maggiori guadagni. Un esempio tutto italiano: Fiat Industrial ha raddoppiato gli utili...e gli operai vivono nell'incertezza continua per i mancati investimenti promessi....però si continua a chiedere i sacrifici e, soprattutto, viene chiesto che tipo di Italia si vuole!
Chissà che delusione per i professori che sono in plancia di comando e per i nuovi profeti del lavoro incerto leggere sul Corriere della sera che per l'84% dei giovani il sogno principale è il posto fisso; che oltre il 70%  è pronto ad allontanarsi da casa per un impiego sicuro e, delusione, solo il 56% andrebbe a lavorare in un altro paese...il 44% vuole lavorare nel suo Paese...che presunzione! Tanto per non andare molto distanti, in Germania, in questo anno sono stati 250.000 i posti di lavoro in più (con 150.000 disoccupati in meno) e sembrerebbe, da un'indagine fatta dall'Associazione delle camere d'Industria e Commercio (Diht), essere privilegiato il posto fisso: su 25.000 aziende studiate, 1 su 5 farà nuove assunzioni nel 2012; il 70% manterrà il proprio capitale umano e solamente (si fa per dire!) 1 su 9 diminuirà il numero dei dipendenti. Non risulta che in Germania si siano perse settimane di discussioni nel tentare di togliere/proteggere un articolo al quale è stato dato un valore che in realtà non ha...se non per chi ritiene di voler rendere libero da vincoli il lavoro per meglio colonizzarlo.
Che incidenza può avere l'articolo 18 sulle piccole imprese che sono a rischio di collasso?  Per la Cgia queste rappresentano l'ossatura dell'industria italiana e sono le più tartassate, grazie alla chiusura dell'accesso al credito e ad una assurda burocrazia ed Equitalia ne è una prova inequivocabile; rispetto all'anno scorso gli insolventi sono un più 36%. Forse se avessero avuto la possibilità di licenziare facilmente avrebbero avuto maggiore liquidità? E' bene ricordare che in quasi tutte queste aziende non vi è l'applicazione del famigerato e pericoloso articolo. Non c'entra, forse in parte maggiore, il fatto che lo Stato deve a molte di loro parecchi soldi e che la sua insolvenza ha gettato nel disastro molte di esse?
Ritenere che l'abolizione dell'articolo 18 renderebbe equo il mondo  del lavoro è una tale assurdità che dovrebbe far arrossire, sempre che oggi abbia ancora un senso, chi solo lo pensa. Anzi, sarebbe proprio il contrario e, per quanto ripetuto, non dovremmo mai stancarci di ripeterlo: caso mai accentuerebbe il dualismo "élite" e "periferici". Con la riforma delle pensioni, con la quale si è chiesto ai lavoratori di andare in pensione più tardi, si sono create  anche le condizioni di occupare per più anni le posizioni che sarebbero dovute andare ai più giovani. Quindi com'è possibile far lavorare i giovani se non si costruiscono nuovi posti di lavoro? Di quale equità parliamo, quando tutto ciò genera un grave problema ai lavoratori esodati, cioè "quelle decine di migliaia di lavoratori che hanno accettato l'uscita morbida dalle crisi aziendali, ma che per l'effetto dell'innalzamento dell'età si ritroveranno per anni nel limbo senza alcun reddito"?
L'equità si raggiunge solo attraverso politiche di crescita, che danno la certezza del lavoro, il diritto ad un salario, la consapevolezza di essere parte attiva della società e la libertà di potersi scegliere il futuro che a ciascuno più aggrada.
Per quanto famoso e conosciuto, è un piacere ricordare il pensiero di  Sandro Pertini sull'uomo libero:
Mi dica, in coscienza, lei può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli ed educarli? Questo non è un uomo libero! Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è libertà! La libertà senza giustizia sociale è una conquista vana!"







2 commenti:

  1. Caro Idelbo,
    le segnalo il passo saliente dell'articolo della politologa Nadia Urbinati (Titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Columbia University di New York) "Per il mercato il lavoro deve tornare a essere un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha questo significato.
    Si ripete da più parti che questo articolo ha comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l´Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si dice, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l´interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l´articolo 18 impone, è un limite che segnala la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro deve rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell´articolo rispecchia quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabilisce la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senz´altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide. Questo articolo è la conseguenza naturale dell´articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici.
    Per chi volesse leggere per intero l'articolo fornisco il link.
    http://giovannitaurasi.wordpress.com/2012/02/09/il-declino-dei-partiti-e-il-potere-economico-di-nadia-urbinati-da-la-repubblica-del-9-febbraio-2012/

    Complimenti per il bel post.

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    1. Caro prof Woland,
      leggo sempre con molto interesse e piacere la professoressa Nadia Urbinati e la ringrazio di questo articolo che non avevo ancora letto.
      D'altronde, già Karl Polanyi ci ha dato lezioni dei disastri che avvengono quando l'economico prevale sul sociale...ma lo dovrebbero rileggere, insieme alla Urbinati, anche i nostri rappresentanti politici
      Grazie ancora della segnalazione e dei complimenti
      Idelbo

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