martedì 7 febbraio 2012

La "classe precaria"

E' terribilmente fastidioso, ogni giorno, leggere un'esternazione di un componente del governo circa l'art.18, sull'illusorietà del posto fisso o, ancora peggio, sul fatto che sembra che i giovani di oggi non accettino altro lavoro che quello vicino a casa.
Se è una tattica per far vedere che il governo è unito su questo argomento, è oltremodo fuori posto, in quanto la maggioranza degli elettori crediamo che sia unita in senso contrario, per cui si andrebbe su un terreno di sicuro scontro.
Ciò che più infastidisce è che chi esterna è in possesso (o lo era!) di un posto fisso; oltretutto i figli hanno il posto fisso; oppure, che il fatto di non essere "sfigato" è dovuto alle conoscenze del padre. Non è elegante coinvolgere i figli nelle dispute con i padri o le madri, ma rimane difficile valutare se le attuali posizioni lavorative dei figli siano dovute  alle loro capacità, alle conoscenze dei genitori o, perché no, a tutte  e due le cose. Difficile essere smentiti nell'asserire che potrebbero esserci dei giovani più bravi dei figli dei  nostri "esternatori", ma che non hanno le entrature giuste per occupare i loro posti. Cosa sono, sfigati? Oppure dei poveri illusi che sognano il posto fisso, incapaci di non comprendere quanto sia monotono? Forse, ma anche no, avrebbe potuto essere il lavoro che  finalmente li poteva allontanare dalla casa dei genitori! 
Premesso che sarebbe piacevole poter far "annoiare" i nostri giovani con il posto fisso, parliamo del lavoro flessibile e subiamo l'idea che possa diventare la forma di lavoro futura.
Bisogna intenderci che cosa si intende per lavoro flessibile. Forse che le persone saranno obbligate a vivere il dramma della perdita del lavoro con la tragedia di trovarne un altro? Forse si intende che le aziende possono assumere e licenziare a loro piacimento, scaricando sui lavoratori tutti i costi? A cosa servirebbe l'ipotetico "robusto supporto" proposto da Bonanni (Cisl) o cosa diventerebbe il reddito minimo, se non un mezzo per rendere innocuo un "esubero" che, potenzialmente, potrebbe recare danno alla parte della società operosa. Dare dei soldi per vivere anche se non servi, purché ti stia buono  a casa, magari a giocare con la playstation. 
Un tempo il lavoro ti faceva sentire parte di qualcosa; ti sentivi socialmente utile, oltre ad essere gratificante. Chi  non ha gioito per un risultato raggiunto, magari a seguito di sforzi e sacrifici notevoli, per la laurea del figlio, per l'auto desiderata, per la cucina nuova o per la casa comprata e finita di pagare? Chi lavora non deve ringraziare nessuno, perché ciò che riceve se lo guadagna; e lo può dire "l'esubero" che viene pagato per starsene buono? 
Forse potrà apparire un'analisi troppo cruda ed estremistica, ma la paura, sottaciuta, è far passare la linea che oltre certi posti fissi (élite) non rimane che la flessibilità/precarietà. Il posto fisso ci sarà sempre! Sicuramente per pochi eletti, fidelizzati, bravissimi o figli di potenti, intorno ai quali far girare un esercito di persone "utili al momento giusto". Far passare quest'idea, magari istituendo anche un "robusto sistema di supporto", è il modo meno costoso, nei tempi in cui l'economia tira, per contenere l'insoddisfazione sociale e i costi del welfare. Se i poveri aumentano, diminuisce la possibilità di spesa, per cui è logico dare loro la possibilità di spendere, pur rimanendo ai margini del mercato del lavoro.
Discutere dell'articolo 18 in un Paese nel quale il 47% della forza lavoro è impiegata in aziende al di sotto dei 10 dipendenti, in cui lo stesso non è applicato, oppure del posto fisso, quando attualmente il 60% della forza lavoro è a tempo determinato, è una ridicola pagliacciata o, se si vuole, un problema di sola facciata.
Vivere in un Paese nel quale si può perdere il lavoro, ma è facile trovarne subito un altro, che il lavoro sia flessibile  o meno ha un'importanza relativa; semmai ci potrà essere la fatica di dover imparare più lavori o di mettersi spesso in discussione; forse ci potrà essere lo stress dettato dalla paura di non potercela fare, ma potrebbe essere anche un motivo di crescita professionale. Ma tutto ciò dovrebbe prevedere anche un sistema di gestione del tempo e dei meriti del lavoro flessibile svolto, oltre il quale spetterebbe il diritto alla valorizzazione personale acquisita: anche per evitare la crescita di classi di élite e classi periferiche. Nonché un'attenta gestione dei posti fissi, onde evitare che possano essere occupati da chi ha i soli meriti delle conoscenze giuste. Non è da dimenticare, inoltre, che non tutti possono essere dei "geni" o avere i mezzi fisici e culturali per districarsi compiutamente in diversi lavori...che facciamo...li mettiamo in discarica?
Il governo dei professori, per niente diverso da altri peggiori, almeno quando si parla del mercato del lavoro, dovrebbe preoccuparsi di creare le condizioni affinché la flessibilità sia contenuta o accettabile, creando lavoro, anziché esternare di cose che neanche conoscono. Come dice il professor Gallino : "In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre asserire che ce lo chiede l'Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d'accordo, che l'articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria ( per la quale l'articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c'è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari".
Nel dicembre scorso, il Centro studi di Confindustria rilevava che nel 2012 il Pil sarebbe calato dell'1,6% e scriveva. " è molto probabile che si attenui il reintegro delle persone in Cig, aumentino i licenziamenti, il tasso di disoccupazione salga più velocemente e raggiunga il 9% a fine 2012".  Domanda: con l'abolizione dell'articolo 18 si risolverebbero questi problemi? Oppure siamo alla solita farsa all'italiana, dove tutto lo si vuole far diventare disputa politica o difesa degli interessi di parte, dimenticandosi che stiamo parlando di persone?
Sergio Marchionne ha forzatamente chiesto sacrifici ai lavoratori e l'accettazione del suo modello di nuove relazioni industriali, promettendo lavoro e investimenti. Ad oggi, quel che è certo è che Fiat Industrial ha quasi raddoppiato l'utile netto: 701 milioni di euro nel 2011 e 378 milioni di euro nel 2010. Anzi, "in considerazione della costante performance dei business e della considerevole capacità del gruppo di fare cassa, si è ritenuto che Fiat Industrial potrebbe distribuire, ogni anno, tra il 25% e il 35% dell'utile netto consolidato, con un esborso minimo in condizioni normali di 150 milioni di euro".  Gli azionisti battono le  mani...ma dove sono gli investimenti e lo sviluppo promesso?
Se nella pubblicità della nuova Panda l'Ad di Fiat ha voluto mettere, insistentemente, la domanda "Quale Italia vogliamo?" , diventa semplice la risposta, "Non la sua!"
L'Italia che vogliamo è quella che tiene conto non solo dell'élite che la compone, ma anche delle numerose famiglie ai limiti della povertà assoluta, dei disoccupati, dei giovani senza lavoro e del crescente numero di persone che ricorrono alla Caritas. L'Italia che vogliamo è quella che si cura delle nostre migliori menti, che dopo un periodo di professionalizzazione possano tornare al loro Paese per farlo crescere. L'Italia che vogliamo è quella che chiede sacrifici a tutti, anche ai ricchi che evadono o portano capitali all'estero  e pure agli azionisti di Fiat Industrial, che si spartiscono anche parte di  ciò che sarebbe dovuto essere investito in progetti promessi.
La nostra Italia non prevede la "classe precaria".




2 commenti:

  1. Caro Idelbo.
    purtroppo l'Italia che vogliamo, l'Europa e il mondo che vorremmo credo resteranno nostri sogni.Continua a valere la legge del più forte e forse tutti i nostri ideali di giustizia, equità, fratellanza, libertà sono solo sovrastrutture in un animale che ha nel dna una feroce gerarchizzazione per cui - come nei lupi - contano solo i maschi alfa dominanti.
    Oggi, caro Idelbo, sono forse più pessimista del solito e spero che i nostri figli e nipoti possano un giorno darmi torto.
    Un abbraccio.
    W

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  2. caro professor Woland
    lo leggo sempre con piacere.
    Ci sono momenti che viene voglia di deporre la penna...ma non possiamo dimenticarci dei nostri giovani e delle promesse fatte ai nostri vecchi.
    Siamo obbligati a continuare
    Idelbo

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