domenica 16 giugno 2013

Il futuro? Sta nel contenuto etico del lavoro!


Che il mondo del lavoro sia cambiato, è indubbio; che la crisi che ci attanaglia sia quasi completamente da imputare alla finanza, allo sviluppo dell'economia di carta e ed una politica colpevolmente connivente lo è altrettanto, ma ritenere le aziende prive di colpe sarebbe un errore grave. Naturalmente una buona dose di errori se la devono prendere pure i sindacati, intenti più a preservare le loro prerogative che  non interessati alle sorti dei lavoratori, giovani o meno giovani che fossero. Oggi il distacco con questi ultimi è talmente vasto che difficilmente riescono a ristabilire un contatto di fiducia totale. E i lavoratori?
La loro colpa grave è stata quella di di non aver capito la trasformazione in atto, di averla subita per troppo tempo e, quando ancora non aveva colpito la maggioranza, di ritenere che la crisi avrebbe "colpito gli altri"...fino a quando siamo diventati tutti "altri"! Poi una sorta di rassegnazione, la continua ed inesorabile caduta nella povertà; la paura del domani che si trasforma in ansia...finalmente una presa di coscienza, la necessità di una reazione, il dovere di riprendersi il futuro in mano e di tornare ad essere attori e non comparse. Ma intanto il lavoro è cambiato...il mondo è cambiato! Ed è un'utopia pensare che ritorneranno i "trent'anni d'oro" o attendere l'avvento di qualche illuminato (follia se l'attesa fosse verso un politico!) che, in possesso di bacchetta magica, costruisca un nuovo Rinascimento del lavoro...sempre che ci sia stato! Quello che dobbiamo fare e che le aziende dovranno fare, per tornare ad essere vitali e competitive, è costruire insieme il futuro...fare parte di un progetto condiviso, pur nel mantenimento delle rispettive posizioni degli attori partecipanti.
Per una sintetica analisi è utile una rivisitazione di alcuni vecchi post.
Ogni paese ha la sua peculiarità e il nostro si è sorretto con gli artigiani e la piccola e media industria, quando manager incapaci e politici inefficienti hanno fatto l'impossibile per distruggere la grande industria, un tempo fiore all'occhiello e vanto in tutto il mondo. Con le nostre micro imprese abbiamo raggiunto l'eccellenza e il mondo ci conosce per la nostra capacità creativa, ma anche per il nostro "saper fare".  Ed è da qui che dobbiamo ripartire. Richard Sennett, nel suo libro L'uomo artigiano, scrive: "E' ora di restituire valore al lavoro fatto con le mani e con il cervello, ma sempre con perizia artigianale, e di guardare al passato per ricostruire il nuovo su basi solide [...] bisogna trascorrere più tempo con le persone che sanno fare le cose e meno ascoltare i discorsi dei manager". 
Purtroppo le nostre micro, piccole e medie aziende hanno perso questa peculiarità, per non parlare delle grandi aziende, invece sarebbe un nuovo punto di partenza perché "c'è differenza tra chi sa fare una cosa e si accontenta di saperla fare, e chi invece è dotato dell'abilità artigianale che lo spinge ad un continuo miglioramento. Oggi, nelle grandi organizzazioni, questa visione non trova spazio. Le aziende non la incoraggiano. Al contrario, se serve competenza che manca all'interno, anziché far crescere le persone in organico, la si va a cercare fuori, reclutando qualcuno che costi meno. Magari in Cina", sempre citando Sennett.
Nelle fabbriche del periodo taylor-fordista era preminente il saper fare proprio per l'impostazione rigida sia della produzione che della struttura aziendale. Non era necessario avere capacità relazionali o creative in un lavoro dettato da ferree regole produttive e da una rigida struttura di comando piramidale. Quello che era richiesto, qualora ce ne fosse stato bisogno, era solo il saper fare o, al limite, erano necessarie solo la forza e la volontà. Tutto era scritto, determinato e impostato dall'alto, quindi sul posto di lavoro era sufficiente portare le braccia e non la testa. Oggi le aziende hanno sempre più bisogno di personale specializzato, che sappia lavorare in gruppo, che sappia relazionarsi,  che abbia le capacità di leggere e rispondere alle continue sollecitazioni del mercato e trasformarle in adattamenti produttivi e, soprattutto, oggi c'è la necessità, come dice Serafino Negrelli, in Sociologia del lavoro, che da una funzione "di semplice servizio di sorveglianza della macchina" si passi a "un'attività di conduzione, che è più di tipo mentale che pratica e manuale". Naturalmente ciò implica che il conduttore sia a conoscenza di tutti i fattori importanti della produzione.  Aggiunge ancora Negrelli: "l'obiettivo è di accrescere proprio le competenze sociali ovvero di sviluppare le capacità relazionali dei lavoratori, insieme alla loro abilità professionale. Alla nuova prevalente figura del 'conduttore di impianti' è richiesta non solo la capacità di diagnosi, ma soprattutto padronanza di comportamento nel saper lavorare in squadra e avvalersi dell'assistenza di altri lavoratori qualificati".
Si è visto che da un agire orientato al risultato (saper fare) si passa ad un agire riferito al processo, che richiede soprattutto padronanza intellettuale del ciclo di lavorazione e quindi un comportamento lavorativo del saper essere, perché, come scrive Robert Reich: " poiché non è possibile definire in anticipo i problemi e le soluzioni, scambi di idee frequenti e informali servono a garantire che si faccia il miglior uso di intuizioni e scoperte e che queste siano sottoposte a una tempestiva valutazione critica".
Quanto esposto da Negrelli è estendibile a qualsiasi funzione produttiva e non solo ai conduttori, in quanto è e dovrà essere una filosofia applicata al lavoro  che, se da una parte valorizza il lavoro e il lavoratore, dall'altra dovrà essere sempre più effettiva esigenza degli imprenditori se vorranno rispondere a un mercato sempre più nevrotizzato. La pena sarà l'esclusione dalla competizione. D'altronde il fondatore e presidente della Sony è molto chiaro: un'azienda non farà mai strada se il compito di pensare è lasciato a chi dirige. Nell'azienda tutti devono contribuire, e il contributo dei dipendenti dei gradini più bassi non deve limitarsi al lavoro manuale. Noi insistiamo perché tutti i dipendenti contribuiscano con il cervello [...] Dopo tutto chi ci potrebbe indicare meglio come organizzare nel dettaglio il lavoro, se non le persone che lo fanno?"
Anche per Reich è importante lo sviluppo delle capacità delle relazioni sociali dei lavoratori, in un'azienda con organizzazione a 'tela di ragno' e scrive: i responsabili della intermediazione strategica stanno al centro, ma ci sono connessioni di tutti i generi, che non li interessano direttamente, mentre nuove connessioni vengono continuamente create [...] le specializzazioni individuali sono combinate in modo che la capacità di innovazione del gruppo è un pò superiore alla somma delle singole parti [...] Imparano il modo di aiutarsi vicendevolmente per ottenere risultati migliori, si rendono conto del contributo che i singoli possono apportare a un determinato progetto e del modo migliore per acquisire insieme una maggiore esperienza. Ogni partecipante al lavoro di gruppo cerca di scoprire idee che possano far progredire il gruppo. Non è possibile tradurre un'esperienza e una comprensione collettiva di questo genere in procedure operative standard da trasferire facilmente ad altri lavoratori e ad altre organizzazioni. Ciascun punto nodale del reticolo aziendale rappresenta una combinazione unica di capacità".
Quanto sopra esposto ci obbliga a prendere in esame il concetto di "creatività" di Florida, partendo dalle considerazioni che fanno seguito alle sue numerose ricerche sul campo, e cioè al fatto che le persone chiedono sempre più di "partecipare a qualcosa che veda la luce del giorno", di "portare al lavoro se stessi", di vedere riconosciuto il loro contributo, elementi costitutivi di un rafforzamento dell'autostima e della creatività.
La creatività non è esclusiva di un ristretto gruppo di privilegiati, ma si estende (o dovrà estendersi) ad ogni funzione produttiva e gestionale, al di là dello status occupazionale, classe o settore. Se ciò non fosse, la creatività troverebbe ostacoli certi alla propria messa in atto; e sarebbe veramente vano avere un gruppo di creativi isolati. Il risultato della loro creatività dovrebbe essere fatto mettere in esecuzione attraverso procedure, regole e istruzioni, che poco  o nulla le distinguerebbe dal sistema taylor-fordista. I 'punti nodali' di Florida sono disseminati in tutta l'organizzazione a 'ragnatela', quindi in ogni comparto aziendale, e creativo è, ad esempio, chi propone una geniale modifica ad un prodotto per rispondere a certe esigenze di mercato, ma creativo è anche l'operaio che propone come sfruttare l'impianto in dotazione per fare tale prodotto, magari evitando investimenti superflui.
La creatività non si insegna, la si può aiutare, la si può stimolare e , soprattutto, si possono e si devono creare i presupposti ambientali e sociali per coltivarla. La creatività è figlia naturale della partecipazione, dello scambio di idee e, soprattutto, presuppone un effettivo cointeressamento e la consapevolezza che il proprio supporto è ben accetto agli altri. Non esiste un indice di misurazione della creatività, esiste la creatività in se stessa. Semmai esiste un ambiente in cui ti viene chiesto di dare del tuo e poi ti viene concessa l'opportunità dell'esperienza e della professionalizzazione, in base alla quale maturare ed accrescere anche la creatività; un ambiente dentro il quale sia possibile palesare ciò che diceva Albert Einstein "la creatività non è altro che un'intelligenza che si diverte".
In prima analisi sembrerebbe il nuovo paradiso del lavoratore, mentre sappiamo bene che l'altra faccia della medaglia è lo sforzo dello sviluppo continuo e personalizzato della formazione, maggiore stress, maggiori assunzioni di responsabilità e ritmi di lavoro elevati, ma, se tutto ciò fosse supportato da un adeguato trattamento economico, da un'effettiva partecipazione e, soprattutto, da un'equilibrata ripartizione tra il tempo del lavoro e il tempo del lavoratore, non vi sono dubbi che rispetto al lavoro taylor-fordista, dove la testa la potevi lasciare a casa, solo il sentimento dell'autostima farebbe propendere per questo nuovo lavoro. Ed è a questo lavoro che le aziende dovranno sempre più guardare, valorizzando i lavoratori e il lavoro di gruppo, che vuol dire, in definitiva, dare sicurezza del posto di lavoro, conditio sine qua non per fare l'investimento del proprio futuro in qualcosa in cui si crede e valga la pena di fare sacrifici. Ma se si chiedono sacrifici o se si domanda che azienda si vuole, sarebbe anche opportuno mettersi e mettere gli altri nelle condizioni di condividere e spartire sacrifici e benefici. Soprattutto, sarebbe necessario valutare forme di condivisione e partecipazione a progetti comuni e, non meno importante, decidere insieme come farli!
Uno degli elementi fondamentali per far fronte alla competizione internazionale è la qualità del prodotto o del servizio, oltre alla qualità della mano d'opera. 
Per avere qualità è necessario che all'interno delle fabbriche sia assente o quasi il conflitto e che  sia massima la cooperazione, perché, come scrive Aris Accornero nel suo libro Era il secolo del lavoro: "Quale azienda potrebbe mai promettere la qualità totale ai propri clienti, rinunciando impunemente all'intelligenza dei propri lavoratori. La qualità totale non rende possibile una nuova qualità del lavoro, ma rende necessarie nuove relazioni del lavoro". Ecco che lavoro vorremmo nel nostro Paese ideale: che nelle fabbriche ci fosse la "cooperazione intelligente".
Poco vale parlare di partecipazione, coinvolgimento, qualità totale, se la maggior flessibilità richiesta è la causa della perdita di lavoro. Le imprese devono tener conto che è difficile chiedere la qualità ad un lavoratore saltuario o a lavoratori che sentono la loro sicurezza minacciata invece che rafforzata; soprattutto, devono metabolizzare che una mano d'opera eccellente e partecipante è un investimento per il futuro. D'altronde e sempre chiedendo aiuto ad Accornero: "Chi obiettasse: come si fa a parlare di sicurezza e di stabilità del lavoro, in tempi di competizione globale, farebbe meglio a chiedersi: come si fa a parlare di qualità del lavoro con lo spauracchio del licenziamento?"  
Si potrà discutere sul tipo di partecipazione più idonea, collaborativa, partecipativa o altre forme possibili, ma le imprese, se vorranno affrontare la concorrenza internazionale, avendo costi del lavoro più elevati, dovranno ripensare la propria organizzazione in termini di partecipazione, che spesso viene richiamata solo quando si vogliono chiedere sacrifici ai lavoratori. Come scrive  Tawney: "è ozioso attendersi che gli uomini diano il meglio di se stessi a un sistema in cui non hanno fiducia, o che abbiano fiducia in un sistema nel cui controllo non hanno alcuna parte".
Accornero sollecita a considerare l'impresa come una comunità non più basata sulla fedeltà e sulla deferenza, ma al bisogno di infondere e di esaltare il "contenuto etico del lavoro".
Se è vero, come scrive Kant, che "la mano è la finestra della mente", allora diventa un dovere imperativo di chi istruisce, governa e dirige ad insegnare e indirizzare le capacità artigianali e tecniche con le competenze industriali; ad affiancare le capacità dei manager e dei tecnologi a quelle straordinarie dei tecnici e degli artigiani; soprattutto indirizzare i giovani a riscoprire un mondo con ampie prospettive di futuro, entro una comunità/impresa dove l'implementazione del Codice Etico non può essere solo un biglietto da visita da esibire, ma un modo diverso di concepire l'azienda.
Solo così potremo avere un futuro dignitoso!


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