lunedì 28 febbraio 2011

BONUS O PREMIO: non risarcisce il minor valore-lavoro

Lo spunto ci viene dato dall'articolo che abbiamo letto su Il Fatto Quotidiano, Bonus su misura, relativo alla decisione dell'azienda trevigiana Replay di distribuire il premio di produzione ad personam: in pratica il premio viene commisurato all'impegno del dipendente. Naturalmente il ministro Sacconi ha applaudito alle nuove relazioni industriali, che danno "un segnale preciso che va nella direzione di una sempre maggiore compartecipazione nell'attività e negli utili delle imprese".
A parte il fatto che non riusciamo a capire come possa il ministro vedere segnali così positivi verso la compartecipazione all'attività e agli utili dell'azienda, ma ciò è ininfluente, quello che ci preme evidenziare è sono alcuni aspetti della notizia.
Il premio di produzione non è un indice di compartecipazione all'attività e agli utili dell'azienda, perché ciò dovrebbe essere l'ovvia conseguenza di un progetto che veda i lavoratori "partecipi" fin dall'inizio e cioè nella fase di analisi delle strategie aziendali; nella gestione della produzione e nell'applicazione del Sistema di qualità; nella condivisione dei progetti, nella ricerca e sviluppo dei prodotti. Quello di cui si parla nell'articolo è un premio legato a dei traguardi che si vogliono raggiungere, come il fatturato, gli utili, la produttività, la riduzione degli infortuni, la riduzione delle non-conformità ecc. Il premio serve all'azienda per ottenere dai dipendenti qualcosa in più, senza doversi impegnare più di tanto in particolari "nuove relazioni" e, tanto meno, senza dover "aprire il capitale ai dipendenti", come sostenuto dal vicepresidente della Fashion Box, proprietaria della Replay. Questo tipo di premio di produzione sta alla discrezionalità dell'azienda ed ogni anno può stabilire, a suo insindacabile giudizio, se darlo o meno e quale dovrebbe essere l'entità e/o la modalità di giudizio.  Con una partecipazione effettiva dei lavoratori ciò non sarebbe consentito, perché il tutto sarebbe stabilito a priori, a seguito di un ben definito progetto e definiti traguardi, per altro verificabili. In questo caso si parlerebbe di partecipazione agli utili aziendali.
Un altro elemento, che non sarà gradito a molti, è la modalità di distribuzione del premio di produzione. Si parla spesso di "meritocrazia", nella politica, nella pubblica amministrazione, nella scuola, ma quando si tocca in qualche modo la fabbrica è una parola che mette paura. Si potrà discutere sulle modalità di impostazione del premio di produzione, quale può essere il metro di misurazione, le voci che concorrono a stabilire certe priorità, le modalità di parametrizzazione e di verifica, ma che il premio sia, in qualche modo, legato anche all'impegno dei lavoratori non dovrebbe suscitare tanto scandalo. Ciò non vuol dire che tutti debbano essere dei geni per avere il premio, ma che ognuno, secondo le proprie capacità e funzioni, dia il massimo. Il premio deve essere dato al responsabile che ha la genialità di un'ottima soluzione produttiva, ma anche all'operaio che riesce a sfruttare bene le macchine a sua disposizione per produrre l'"ottima soluzione produttiva". In questa tipologia di premi, sarebbe un'ottima cosa dividere in due parti l'ammontare: la prima, legata all'andamento dell'azienda e generalizzato su tutti i dipendenti; la seconda, in funzione dell'impegno del dipendente. 
L'ultimo elemento che vogliamo sottolineare è la sottile ironia circa la partecipazione dei lavoratori al capitale dell'impresa, "vagheggiata dai sindacati più collaborativi, cioè Cisl e Uil".  Pur non essendo mai stati iscritti ai due precedenti sindacati, noi siamo estimatori del modello renano, anche in funzione dei risultati che stanno ottenendo (si veda il contratto Wolksvagen), ma soprattutto perché siamo consapevoli che certi risultati come occupazione, lavoro, ricchezza ecc, si ottengono se c'è la partecipazione di tutti gli attori. Saremmo curiosi di capire in che modo si potrà recuperare il "valore lavoro", oltre ai numeri di posti di lavoro necessari per i nostri giovani, se non con la partecipazione. Certo ci vorrebbero poche, chiare e inderogabili leggi, come binario su cui camminare; ci vorrebbe un Governo che avesse la capacità di fare una buona politica economica, e ci vorrebbero dei sindacati che sapessero guardare al progetto al di là dell'ideologia. Talvolta si ha la sensazione che ci sia nostalgia del vecchio fordismo, dove l'operaio valeva meno della pressa su cui lavorava, dove i sistemi di sicurezza non si sapevano neanche che cosa fossero, dove la conflittualità era all'ordine del giorno, ma, una cosa era certa, da una parte c'erano i padroni e dall'altra i lavoratori. E per i sindacati era un lavoro facile. Oggi si chiede loro di non fare battaglie di trincea o di assalto alla baionetta, ma di lottare alla pari del capitale per riprendersi ciò che quest'ultimo ha tolto ai lavoratori: occupazione e valore-lavoro. Finché parleremo di bonus o premio di produzione non riusciremo mai a risarcire i lavoratori della diminuzione del valore-lavoro.


sabato 26 febbraio 2011

PMI e il " Sistema di conoscenza condiviso"

La domanda che spesso ci poniamo è se sia meglio sviluppare la nostra struttura a piccole e medie imprese oppure, per sopravvivere, se sia necessario costruire imprese di grandi dimensioni. Pmi in crisi. La risposta più ovvia sembrerebbe andare nel verso di queste ultime, perché ci permetterebbero un numero maggiore di posti di lavoro; una maggior forza di penetrazione sui mercati internazionali; maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, quindi, perché no, maggior possibilità di fare brevetti. Ma ci sono delle considerazioni che premono sull'ovvietà: come costruirle, chi le deve costruire e, soprattutto, ne abbiamo le possibilità? 
La nostra storia industriale, basti leggere il testo di L.Gallino "La scomparsa dell'Italia industriale", sembra indicarci una scarsa propensione verso la grande industria. Abbiamo dissipato migliaia di miliardi di vecchie lire nella chimica e nell'elettronica di consumo; abbiamo distrutto il settore dell'aviazione civile, vanto tutto italiano; abbiamo svenduto un'eccellenza della meccanica di precisione, l'Oto Melara; non siamo stati capaci di dare un sostegno nella ricerca e sviluppo alla Olivetti, quando era fra i primi sei produttori mondiali di mainframes: senza considerare che quando l'IBM si avvantaggiava di lucrose commesse ottenute dal governo federale Usa, i nostri ministeri e amministrazioni pubbliche avevano un solo computer dell'italica azienda, quello donato da Adriano Olivetti al ministero del Tesoro. Si sono sperperate e distrutte eccellenze a causa di una politica disastrosa e di un manipolo di manager incapaci. E non si dica che è storia vecchia, perché è di poco tempo fa il disastro di Parmalat e Cirio. E quando tutto questo accadeva, le Pmi tenevano in positivo il saldo occupazionale, senza contare che sono riuscite a salvare le esperienze di quel patrimonio umano che in quelle aziende operava.
La Pmi ha subito la crisi di questi anni, ma molte l'hanno contenuta, altre si sono rinforzate, ma, di certo, sono già pronte a ripartire, di sicuro con fatica, ma ripartono. il Nord-Est rialza la testa. Tra l'altro se guardiamo alle grandi imprese, nel 2010 abbiamo avuto un calo dell'occupazione del 1,6%, rispetto al 2009, e le retribuzioni hanno avuto un incremento del 1,5%, sempre rispetto al 2009; ma si tenga conto  del 3,1% di aumento concordato alla wolksvagen con l'ultimo contratto grandi imprese, cala l'occupazione e sale la retribuzione.
In questo momento la cosa più urgente è creare lavoro, e non è importante se è nelle grandi aziende, nelle Pmi, nelle microimprese o nell'artigianato, l'importante è cercare di impiegare il maggior numero di giovani, per ridurre la disoccupazione e sfoltire le fila dei giovani NEET, la nostra vera vergogna. E' senza il lavoro che non c'è salvezza. Per noi è una boccata di ossigeno  sapere che delle 213.000 nuove imprese del 2010 siano state create dagli under 30. Bamboccioni? No, grazie.
E' con la memoria del passato e consapevolezza del presente che si può costruire il futuro. Quello che è certo è che abbiamo una forte Pmi e, in certe nicchie, delle vere e proprie eccellenze. Quello di cui dobbiamo essere consapevoli, è che siamo agli ultimi posti fra i paesi Ocse circa l'innovazione, si legga non è un paese di innovatori. Infine, sarà prioritario e determinante riformare la scuola e l'università al fine di istruirci le "teste" per il futuro. Ma non è con gli incentivi monetari allo studio che si raggiungono i risultati. I giovani hanno il dovere di studiare, non fosse altro che per il loro futuro, e sta alla scuola e all'università far si che possa diventare anche piacevole. Il sistema scolastico e accademico devono ritrovare un valore assoluto, che riguarda maestri, professori, accademici e studenti: la meritocrazia. Il diritto allo studio è sacrosanto e inviolabile, ma, come in ogni attività, il valore espresso non è uguale per  tutti. Ogni persona deve dare, si deve impegnare e deve ricevere secondo le sue capacità, ma per avere l'eccellenza si devono coltivare le eccellenze. Quello che deve essere garantito è che ognuno abbia il diritto al lavoro, ed è per questo che si devono coltivare le "teste" che si impegnino  a crearlo, migliorarlo e ampliarlo. Invece di dare sostegni monetari per incentivare gli studenti a studiare, si dovranno pensare stage formativi seri, si legga il precedente post "STAGE E DISOCCUPAZIONE", si devono sostenere gli studenti che frequentano master e dottorandi in Italia e all'estero, per poi far tesoro delle loro esperienze acquisite. 
La sfida per il futuro si gioca nel fare "sistema" e per farlo bisogna avere una visione circolare. Dobbiamo sfruttare ciò che abbiamo e inserire ciò che manca, ma tenendo presente le nostre forze e le nostre potenzialità. Per fare "sistema" è necessario avere un Governo che sappia tracciare, sostenere  e spingere una politica di sviluppo industriale adeguata; è necessario che l'università guardi al mondo del lavoro e alle sue esigenze; soprattutto,  che costruisca programmi moderni, nei quali la teoria e la pratica facciano parte del programma accademico, come in Svezia. Senza contare che questo darebbe nuova linfa alle università, che sarebbero tenute a elevare continuamente i loro standard nei programmi, negli aggiornamenti dei professori e nella preparazione dei loro studenti. E' necessario che l'università, le imprese, lo Stato e le regioni sviluppino un progetto in cui ad ogni università sia associato un Centro Ricerche (per tipologia di insegnamento), che sia al servizio del privato e del pubblico; nel quale  si effettui ricerca e sviluppo e, perché no, si facciano brevetti. In tal modo si svilupperebbe un sistema si "conoscenze condivise" il cui costo sarebbe ripartito fra più partner. Ciò permetterebbe di costruire posti di lavoro di elevata qualità, che ci permetterebbe di trattenere o richiamare i nostri cervelli, sparsi per il mondo. Ci permetterebbe di valorizzare tutti quegli studenti che dopo tanti sacrifici decidono di rimanere all'estero perché la loro nazione non sa offrirgli un lavoro decente. Permetterebbe di ripopolare quelle facoltà, oggi carenti, come matematica, fisica, ingegneria ecc. Che senso ha studiare matematica se poi il neo laureato deve far parte dell'esercito di precari della scuola; meglio una laurea in economia e commercio, che, in qualche modo, un lavoro lo riesce a far trovare. Un "sistema di sapere condiviso" avrebbe anche l'opportunità di  creare nelle Pmi sinergie produttive, alleanze strategiche, fusioni o altro, che potrebbero portare anche a dimensioni più grandi per meglio sviluppare le proprie potenzialità. 
Certamente tutto questo ci porta distanti dalle convinzioni dei ministri Meloni e Sacconi, condividendo quanto scrive Guglielmo Forges Davanzati su Micromega, i quali sono convinti che la scolarizzazione abbia la funzione di agevolare l'accesso al mercato del lavoro e che occorre calibrare sulla base delle domande di lavoro espresse dall'impresa. L'economia italiana è sempre più un'economia periferica, nella quale le imprese, non riuscendo a competere innovando, esprimono una domanda di lavoro poco qualificata e quindi meno remunerata (dalle statistiche Ocse risultiamo al 23° posto su 30 paesi). Quindi sarebbero logiche alcune domande: allora cosa facciamo? Aspettiamo che si diventi ancora più periferici? Oppure facciamo in modo che almeno diventi una periferia di lusso? Se i nostri ministri sono consapevoli di questa situazione, ci chiediamo quale sia il compito di un Governo, se non quello di dare gli indirizzi più consoni per uscire dalla crisi sempre più pressante. Non può esserci un'attesa passiva e un'adeguamento della scuola al lavoro, ma deve essere un lavorare insieme per uscire da una situazione di stallo, se non di continua perdita di posti di lavoro. Soprattutto, a differenza dei nostri ministri,  noi riteniamo che la scuola non debba calibrarsi sulle domande del mondo del lavoro, ma debba essere un partner del cambiamento del mondo del lavoro. Deve, soprattutto, sentirsi parte integrante dell'evoluzione dello stesso e deve mettere in campo la conoscenza per arrivare dove altri, con mezzi superiori, riescono ad arrivare. 
Quando il ministro Tremonti dice che con la cultura non si mangia, forse un pizzico di ragione ce l'ha, se guarda al presente. E' certo che senza di essa, comunque, in futuro non si mangerà.

venerdì 25 febbraio 2011

MARCHIONNE: Fiat voluntas tua

Non è importante che sia una piccola o grande cosa, ma la Fiat ha annunciato che dal 14 marzo entra in vigore il nuovo sistema delle pause dei lavoratori presso lo stabilimento di Melfi (3 pause da dieci minuti anziché da venti minuti). Ciò ha provocato il disappunto sia della rsu che della Uilm , che si sono affrettate a dire che "non servono fughe in avanti, sono dannosi gli atti unilaterali d'imperio" ma è utile verificare "le ricadute concrete del progetto Fabbrica Italia negli altri stabilimenti".
Ma cosa sono questi "atti unilaterali d'imperio"? Infondo sono accordi stipulati a seguito di scissioni sindacali e divisioni fra i lavoratori, fino a dover ricorrere ad un referendum. Marchionne sta attuando ciò che è scritto su quegli accordi. Certo, erano accordi che riguardavano altri stabilimenti; oltretutto sarebbe stato corretto effettuare prima una verifica, poi concordare con il sindacato se poterli applicare anche in altri stabilimenti, ma sono facezie, quisquiglie, amenità. Se vanno bene per Mirafiori, perché non vanno bene per Melfi? Dove sta l'atto d'imperio. L'essersi dimenticato di informare i sindacati firmatari che ciò che loro hanno firmato non deve essere verificato ma applicato? O forse sta nel fatto che sta forzando la mano per anticipare i tempi su qualcosa di cui loro non sanno prevederne gli esiti? In fase di contrattazione i sindacati firmatari avranno valutato bene ogni aspetto, ogni possibilità e ogni evenienza, per cui se la riduzione dei tempi di pausa crea maggiore produttività e maggiori guadagni, anche per i lavoratori, non vediamo dove sia l'atto di imperio a estendere tali condizioni anche a Melfi.
Noi abbiamo due sensazioni forti: che l'atto d'imperio non sia ancora avvenuto e che con quell'accordo, non sostenuto da tutti gli attori interessati e privo di esplicite strategie aziendali, si siano messi nella condizione di subire ancora "fughe in avanti"; e, soprattutto,  che se la Fiom e un Governo interessato non parteciperanno ai futuri giochi, i sindacati firmatari, sottoposti al continuo gioco del ricatto dell'a.d., dovranno accettare molti altri "atti d'imperio". 
Senza la Fiom non è possibile instaurare una nuova strategia di gestione delle relazioni industriali, tali da obbligare il Governo a fare la sua parte e l'azienda al rispetto delle regole: all'appello manca il 49% della forza-lavoro referendaria. Ma, per fare ciò,  dovranno essere i sindacati firmatari e la Fiom a fare una fuga in avanti, cioè dovranno rivedere le loro strategie e modernizzarsi per il futuro. Noi abbiamo bisogno di posti di lavoro; abbiamo bisogno della Fiat e di tutte le aziende che operano nel nostro paese, anzi, sono ancora poche, ma dovranno mettersi nell'ordine di idee che in questo difficile momento è necessario che i sindacati co-gestiscano il lavoro. Dobbiamo guardare alla Germania. 
Marchionne non è un manager illuminato, anzi, rappresenta la peggior qualità di manager, di puro stile americano, impegnato più verso gli azionisti che non i lavoratori, ed è per questo che un forte sindacato interessato alle sorti dell'azienda, quindi del lavoro, sia elemento indispensabile per fare in modo che la Fiat riacquisti quelle porzioni di mercato necessarie a sviluppare maggiori posti di lavoro, salvaguardando, naturalmente, sempre i diritti dei lavoratori. Ma è, altresì, necessaria la funzione del Governo: in ogni paese i rispettivi governi entrano con forza e con grande ruolo nello sviluppo industriale e nelle scelte delle grandi imprese, specie se sono comparti ritenuti decisivi e strategici, e, in particolar modo, in periodi di difficoltà economica.
Se ciò non si riuscirà a raggiungere, sia per i sindacati firmatari che per la Fiom non resta che abbassare la testa e " Fiat voluntas tua!".




mercoledì 23 febbraio 2011

IL VALORE SUPREMO DELLA LIBERTA'

Thomas Arnold, il fondatore della famosa scuola inglese in cui fu inventato il rugby, quarant'anni dopo la rivoluzione francese, definì l'idea che la libertà fosse il valore supremo "una delle massime più false che abbia mai assecondato l'egoismo dell'uomo in nome della saggezza politica". In dettaglio spiegò quella massima nei seguenti termini: "la massima secondo cui la società civile dovrebbe lasciare in pace i suoi membri, ciascuno ad occuparsi dei suoi interessi personali, purché essi non impieghino l'inganno o la violenza nei confronti del proprio prossimo [...] Sapendo molto bene che le  [persone] non sono uguali per quanto riguarda il potere naturale, [né] per quanto riguarda i vantaggi artificiali; sapendo anche che il potere di qualsiasi tipo ha la tendenza ad accrescersi, ci facciamo da parte e lasciamo che questa competizione impari vada avanti, dimenticando che il concetto stesso di società implica che non vi debba essere semplicemente una competizione, ma che il suo scopo sia il bene comune di tutti, limitando il potere dei più forti e proteggendo gli indifesi e i più deboli".

lunedì 21 febbraio 2011

LO STAGE E LA DISOCCUPAZIONE

Si parla sempre più spesso della necessità di riformare il mercato del lavoro e della formazione per combattere la disoccupazione giovanile e l'effetto che quest'ultima ha se è duratura. Lo stage, se organizzato con regole adeguate, potrebbe essere uno strumento valido per arricchire il curriculum lavorativo dei giovani e permetterebbe loro di presentarsi sul mercato del lavoro con un'adeguata preparazione.  Troviamo interessante lo studio un nuovo stage contro la disoccupazione giovanile

In Svezia, il ministero dell'Educazione permette, agli studenti del terzo anno universitario, di ricevere una formazione pratica piuttosto che teorica, considerandola parte integrante del corso universitario, ricevendo il consenso favorevole delle parti sociali

Da tempo ci sono proposte per dare qualità e affidabilità agli stage e qualcuno propone anche controlli severi sulle aziende/attività che li effettuano. In sintesi vediamo quali sono le proposte avanzate:
  • DURATA: limitata nel tempo
  • PROGETTO: lo stage dovrà essere finalizzato e reso verificabile in termini di risultati raggiunti
  • TUTOR: durante il periodo di stage deve esserci un tutor che segua il giovane lungo tutto il progetto, dando il supporto necessario affinché diventi un reale periodo di apprendimento in un vero progetto formativo. 
  • RIMBORSO SPESE: dovrà essere istituita una somma, a titolo di rimborso spese, magari proporzionata alle ore dello stage, distanza dall'abitazione, titolo di studio ecc.
  • CONTROLLO E MAPPATURA: dovranno esserci controlli sugli stage che le aziende offrono, valutandone la qualità, la disponibilità all'insegnamento ecc. Dovrà essere istituita una mappatura delle aziende/attività virtuose o meno. 
  • CONTRIBUTI PENSIONISTICI: una voce che ancora non si è letta nelle varie proposte, ma che la riteniamo molto importante. Si dovranno trovare le modalità, magari con contribuzione mista, pubblico-privato, affinché i periodi di stage siano considerati, a tutti gli effetti, periodo lavorativo.
Ci sono giovani laureati che fanno "esperienza" per anni in studi di avvocati e commercialisti che non vengono pagati o pagati male e in nero. E tutto questo nell'attesa di superare un assurdo, mal strutturato e anacronistico Esame di stato.

Lo stage non deve essere un irregolare sistema di far lavorare i giovani in modo irregolare, al contrario,  dovrebbe essere un regolare sistema di crescita professionale. In questa fase storica, nella quale l'irregolarità e la precarietà sono diventate consuetudine, ridare credibilità agli stage permetterebbe di raggiungere tre obiettivi importanti:  formare i giovani alla vita professionale; ridurre la disoccupazione giovanile; fare emergere parte di lavoro nero.

domenica 20 febbraio 2011

STORIE DI QUOTIDIANO RAZZISMO

Nel leggere i dati Ocse relativi alla disoccupazione ti chiedi se sia normale e accettabile che fra i paesi Ocse possano esistere ed essere tollerati dati che presentano 42.000.000 (per esteso fa una certa impressione!)  di disoccupati alla fine del 2009; che si presentino come un  successo 900.000 disoccupati in meno alla fine del 2010 (-2%). Da questi paesi mancano quelli del centro e sud America, dell'Asia e dell'Africa. Ma quanti sono in tutto? Ma quanti sono quelli a cui viene estorto uno dei più elementari diritti della persona? Allora ti chiedi come sia possibile che tutta questa miseria non faccia pressione sui confini di quei paesi che si ammantano di essere democratici, evoluti e portatori dei sani principi di libertà, fraternità e uguaglianza. Ti chiedi come sia possibile risolvere i problemi interni ad ogni paese se non si tiene conto dei problemi del nostro "vicino globale". Ti chiedi, soprattutto, come sia possibile che "quel mondo", un giorno o l'altro, non abbatta definitivamente quei confini. Un motto latino recita "si vis pacem, cole iustitiam".


Qualche giorno fa mi sono fermato all'edicola, che è in prossimità dell'azienda per cui lavoro, e sono venuto a conoscenza che una storica azienda del posto aveva licenziato 30 operai. L'azienda è in una piccola frazione dove tutti sanno tutto di tutti. Ma il licenziamento di trenta persone era rimasto quasi nascosto. Allora chiesi come fosse stato possibile e la risposta, che riporto testualmente, è stata "Tranquillo dottore, erano quasi tutti extracomunitari !" Extracomunitari non persone! Che problemi ci sono, al limite, se tornano al loro paese; infondo sono solo lo 0,0000007% dei 42.000.000 di disoccupati! Statisticamente ininfluenti.

Ma a queste persone, lontane dai loro paesi da anni, con le famiglie e i figli da mantenere, che hanno pagato le tasse per il tempo che hanno lavorato, che hanno un affitto da pagare, che devono mandare a scuola i figli e, cosa anche per loro normale, che devono mangiare, gli diciamo che sono statisticamente ininfluenti? Oppure dobbiamo dirgli che devono tornarsene a casa se non sono residenti da noi da almeno 15-20 anni, come sostiene la prof.ssa Busetti, sindaco di Thiene e appartenente alla Lega? thiene: troppi stranieri. Fino ad oggi hanno fatto lavori che i nostri connazionali non volevano più svolgere, hanno partecipato alla crescita del paese, hanno pagato le tasse, i contributi, hanno avuto uno straccio di vita dignitosa e, come oggetti usa e getta, gli diciamo che non ci servono più e che se ne devono tornare a casa loro. 


Nel libro Il lavoro nel mondo che cambia, Richard Dore scrive "La tolleranza crescente nei confronti della diseguaglianza, nei confronti sia della sua esistenza che della sua crescita [...] ha implicato una trasformazione importante dell'idea di giustizia". 













sabato 19 febbraio 2011

IL GIUDIZIO DEI NUMERI

E' passato qualche giorno dalla conferenza stampa nella quale il premier e il ministro dell'economia tentavano di presentare un resoconto positivo della politica economica degli ultimi  due anni. In almeno tre o quattro interviste televisive, il ministro Sacconi decantava l'operato dell'Italia nel campo dell'occupazione, evidenziando come il nostro tasso di disoccupazione fosse al di sotto della media europea. Ed è ancora fresca la presentazione del futuro progetto di Termini Imerese, in cui sette progetti industriali approvati dovrebbero installarsi nell'attuale sede della Fiat, quando a fine anno cesserà la produzione. In termini occupazionali i posti di lavoro dovrebbero, condizionale obbligatorio, passare dagli attuali 1.500  a circa 3.300. L'investimento complessivo dovrebbe essere di oltre un miliardo, con 650 milioni di euro  attesi da aziende private e 350 milioni  da soggetti pubblici coinvolti. I sindacati , tutti, hanno espresso prudente soddisfazione e la Cgil ha aggiunto che esprimerà un giudizio quando ci sarà un piano chiaro. Comunque sia, è un progetto che avrà tempi di realizzo diluiti in 3 anni. Oggi è un tempo molto lungo, specialmente se a fronte dell'attesa di una spinta alla ripresa economica si promette di abolire degli articoli della Costituzione, il Pil e la Costituzione non sono la stessa cosa . Vogliamo solo sperare che non sia una manovra politica per tentare di accrescere consensi, perché i dati Ocse, e non i corvi o menagrami, ci presentano una situazione disastrosa.

Nel quarto trimestre del 2010 rallenta la crescita economica dei Paesi Ocse (Pil): da un + o,6 del trimestre precedente ad un + 0,4. In Italia si passa da + 0,3 a + 0,1, restando ben al di sotto della media europea.
Se ci raffrontiamo al 2009, nel G7 la crescita più alta è quella  registrata in Germania (+ 4%) e la più  bassa in Italia (+1,3%). crescita in frenata.

Oltre ai dati relativi alla crescita economica è importante  anche estrapolare dei dati significativi, che se comparati con i precedenti, fanno capire quanto sia enorme la sproporzione da ciò che si è presentato come positivo a ciò che in realtà appare. Di seguito i dati sono relativi solo all'Italia ( Ocse 03/02/2011) dati Ocse 

Tasso di disoccupazione: 2009 (8,6%) - 2010 (8,6%). Rimane stabile, mentre nei paesi Ocse scende di 0,1%
Disoccupazione giovanile (15-24 anni): 2009 (25,4%) - 2010 (29%). Fra i Paesi Ocse abbiamo solo quattro paesi che hanno una situazione peggiore della nostra.
Tasso di occupati sul totale della forza-lavoro (uomini): 57,5% Solo l'Ungheria e il Cile hanno una situazione peggiore.
Tasso di occupati sul totale della forza-lavoro (donne): 46,4% Solo Cile, Messico e Turchia hanno una situazione peggiore. (11% in meno degli uomini!)
Disoccupazione di lungo termine: 44,4% Solo il Cile è dietro all'Italia.
Ore per lavoratore (anno): 1.773,4 Più dell'Italia Rep. Ceca, Grecia, Ungheria, Polonia e Messico. Abbiamo superato anche gli Usa.

Se incrociamo i dati relativi alla crescita economica con quelli successivi, appare evidente una situazione che sarebbe un eufemismo dire che è allarmante. Soprattutto se ogni ipotesi di politica economica è stata rimandata al 2012; se il ministro dell'economia si ritiene soddisfatto di come sono stati tenuti i conti; se non si interviene rapidamente a creare lavoro. In questa fase è necessario che le parti sociali facciano un patto forte per concorrere insieme a oltrepassare la crisi, dandosi un tempo di verifica a crisi risolta. Ciò non vuol dire che i lavoratori debbano rinunciare ai loro diritti. Anzi, semmai il contrario. Non è il tempo di azioni strategiche per la conquista egemonica dell'uno sull'altro, ma è necessario che ci sia una stretta collaborazione fra impresa, sindacato e operai. L'impresa deve rendersi conto che la forza-lavoro, in questo momento, è la risorsa maggiore per risolvere la crisi; tanto più se gli viene richiesta la partecipazione. L'impresa deve capire che oggi è determinante che il sindacato sia parte attiva all'interno della stessa. E il sindacato dovrà avere la forza di cambiarsi d'abito e co-gestire l'impresa  ( Germania docet). Le modalità si trovano e, magari, si affineranno, ma adesso è emergenza. 

Certo, servirebbe una classe politica preparata e interessata al Paese; un vero Governo del fare, che dicesse la verità e cominciasse a studiare lucide strategie di politica economica; che diventasse prioritaria la vita delle persone; che desse slancio alla piccola e media impresa, che nelle situazioni di crisi hanno sempre trovato le soluzioni migliori. Soprattutto sarebbe necessario che il Governo governasse per la gente, ma questa è un'altra storia.