domenica 27 ottobre 2013

Dalla crisi alla miseria


Il perdurare della crisi e la lunga recessione, che non sembra dare ancora segnali di ripresa, ha messo in ginocchio il nostro sistema industriale. Per molte imprese è stato e sarà un periodo di preoccupazioni e di difficile gestione. Ormai tutti sembrano concordare che il mercato subirà profondi cambiamenti e che sarà impossibile ritornare alle condizioni pre-crisi. Molti mercati subiranno drastici ridimensionamenti e molti economisti sono convinti che ci sarà un “ritorno all’essenziale” (back to basics), con un conseguente calo dei consumi e una crescente attenzione per l’etica e l’ambiente, che sarebbe encomiabile se non fosse considerato solo un biglietto da visita, ma una reale esigenza e un obiettivo veramente sentito. Certo, le vicende che leggiamo sui giornali, come il Rana Plaza in Bangladesh o la Foxconn in Cina, sembrano dimostrare che si sia “spostato il problema” in paesi consenzienti e meno costosi, piuttosto che implementare con convinzione il Codice Etico e la Responsabilità Sociale nelle proprie aziende.

Ma quali aziende si sono salvate o riusciranno ad uscire indenni dalla drammatica recessione di questi anni?
E’ indubbio che il lungo periodo di crisi ha creato enormi preoccupazioni alle imprese, che si sono trovate a gestire un calo significativo delle vendite e del fatturato, importanti difficoltà finanziarie, con la conseguente necessità di abbattere i costi, l’esigenza di rendersi più snelle ed efficienti, oltre all’esigenza di  investire tempo e soldi per analizzare i cambiamenti in atto, individuare le strategie da adottare e non solo con la logica del breve termine (quello della Sopravvivenza), ma con l’obiettivo di impostare una strategia sostenibile anche nel futuro.
Si stanno salvando e forse usciranno dalla crisi solo quelle aziende che hanno potenziato la cosiddetta “intelligence”, cioè la capacità di osservare, analizzare comprendere cosa stava o sta succedendo nel proprio ambito (clienti, fornitori, concorrenti, mercato e settore); ed hanno avuto la capacità di fare scelte rapide, intelligenti, attente alle variazioni richieste e, soprattutto, con un occhio sempre al di là del breve termine. Parallelamente, però, hanno saputo anche ridurre intelligentemente i costi operativi e non tagliando trasversalmente con il solo scopo di “risparmiare in senso assoluto”, soprattutto a livello del personale. Molte di queste aziende si sono trovate, successivamente, a non avere più personale addestrato pur riacquistando il lavoro!
Un’altra componente essenziale è l’innovazione, ma non solo quella intesa come innovazione del prodotto o servizio offerto tradizionalmente dall’azienda, ma anche come capacità di individuare e lavorare sulle poche priorità sinergiche, per sfruttare al meglio le poche risorse disponibili e fare in modo che siano coerenti alle strategie produttive, dimensionali e temporali attivate in fase di progetto per acquisire quel vantaggio competitivo necessario. Ciò permette di uscire dalla massa dei competitors, dove ciò che conta è solo il minor costo del prodotto o dei servizi offerti, entrando in una competizione folle che vede solo sconfitti. Le imprese vincenti si sono concentrate a generare continuamente “value proposition” innovative: rinnovando la propria offerta di prodotti o servizi; aumentando la gamma dei prodotti, il livello innovativo, tecnologico o creativo; aziende finanziariamente forti hanno spinto nell’automazione per aumentare fortemente la produttività, così da offrire la stessa qualità ad un prezzo inferiore.
Le aziende italiane, spesso molto piccole di dimensioni e operanti in particolari nicchie di mercato, si sono sempre più specializzate, restringendo o, meglio, rendendo più profonde le nicchie in cui potevano operare solo loro o poche di loro ma aumentandone il numero (Strategia delle mille nicchie), riducendo il numero dei possibili concorrenti obbligati a lavorare con prodotti standard. Alcune di loro si sono concentrate sulla personalizzazione dei prodotti. Poche, purtroppo, ma qualcuna ha optato per soluzioni di cooperazione con altri partners, unendo sinergie complementari, dividendo i rischi e gli investimenti.
In questa sintesi, così breve e stringata da essere imbarazzante, si spiega il successo di poche aziende e il motivo per cui alcune di esse hanno cavalcato la recessione e forse ne usciranno più forti di prima…anche perché al termine della crisi, sempre che ci si arrivi, molti concorrenti saranno spariti e, per quanto il mercato sarà ridimensionato, per le poche rimaste sarà più che sufficiente.
Perché in Italia e in Europa sono aumentati e continuano ad aumentare i disoccupati? Perché in Italia e in Europa  sono aumentati e continuano ad aumentare i poveri? Nella sola Europa, alla fine del 2013 si dovrebbero attestare sui 120 milioni! Per il semplice motivo che sono poche le aziende che si possono iscrivere fra quelle virtuose che si sono prodigate a sviluppare ciò che si è scritto in precedenza. Le rimanenti, per incapacità, dimensioni, obsolescenza, superficialità e stoltezza non sono state all’altezza del loro compito. Se a queste si inseriscono quelle aziende che negli anni pre-crisi si erano sempre più staccate dalla manifattura per dedicarsi alla finanza o quelle che avevano preferito paesi con manodopera a minor costo o costo servile, è difficile pensare che in un momento di crisi possano contare su una struttura produttiva idonea o su una fidelizzazione del personale e, tanto meno, contare sull’intelligenza dei lavoratori che “loro stessi” non hanno mai voluto e coltivato…produrre e offrire qualità, analizzare strategie di diversificazione dei prodotti e dei servizi, monitorare le nevrotizzazioni del mercato e dare immediate risposte non si fanno con gli “sfruttati da due soldi”, ma servono uomini preparati, capaci, motivati, fidelizzati, che sappiano fare il proprio lavoro…che si sentano parte integrante…che siano motivati! E in tutto ciò molte aziende italiane non solo hanno peccato, ma, se dovessero mai salvarsi, dovranno ripensare i rapporti con il personale. E dovranno chiedersi se sia valsa la pena e se lo  varrà ancora in futuro di non avvalersi dell’intelligenza dei lavoratori.
Se all’incapacità di molte aziende si aggiunge la dissennatezza delle banche, corree con la finanza delle criminali speculazioni che hanno dato il via ad una terribile crisi e dalla quale sono state salvate grazie agli interventi dei governi, spremendo i soldi da quelle che erano le vittime, i lavoratori; se pensiamo che si è preferito (obbligati?) regalare una montagna di soldi alle banche, senza deviarne una buona parte ad aziende che sarebbero state salvate o aiutate a salvarsi e che molte di esse sono fallite e i loro proprietari suicidati perché non venivano pagate per lavori svolti allo Stato; se poi ci aggiungiamo anche l’incapacità (o collusione?) dei governi, che niente hanno fatto per creare lavoro, renderlo meno costoso o costruire progetti che facessero scudo al crescere della disoccupazione e della povertà, allora la risposta che ci siamo posti è ovvia! Forse è facile populismo, idee di una malsana non-politica, ma avrei proprio piacere che un “sano” politico portasse al supermercato o dal macellaio i bisognosi e convincesse chi pretende di essere pagato che lo pagherà la “politica”…a tempo debito! L’unica cosa di cui sono stati capaci è riassumibile in poche parole: austerità unidirezionale al mondo del lavoro, imprese comprese (e tanti si chiedono ancora perché non si è moralizzata la politica e la finanza, tassate le rendite, richiamati a un dovere superiore i ricchi?); attacco ai diritti dei lavoratori; revisione assurda delle pensioni; e in Italia, la Riforma Fornero, che adesso dicono essere stata concepita per un periodo di crescita dell’economia…e che oggi andrebbe rivista perché in fase di recessione comprometterebbe la ripresa dell’occupazione; distruzione del welfare. Un governo serio, e non solo italiano, avrebbe dovuto “creare” lavoro e forse l’indicazione di Luciano Gallino di una sorta di “New Deal” europeo…forse…non sarebbe una follia! Una delle tante proposte riguarda il riassetto idrogeologico, che ci procura danni ingenti ogni anno e, magari, un lavoro continuo di aggiustamento e prevenzione potrebbe essere meno costoso sia in termini economici che di vite! 
Difficile dire quanto possa durare ancora la crisi, ma pur non essendo un esperto è facile prevedere che sicuramente il numero delle aziende non tornerà più ad essere quello antecedente al 2008: qualcuno scrive che sarebbe meglio, perché le aziende che rimarranno saranno più sane, avranno più denaro per investire, creando nuovi posti di lavoro che sostituiranno quelli persi dalle aziende fallite.  Una barzelletta che non fa più ridere!
La crisi avrà insegnato che per combatterla serve organizzazione, professionalità, capacità tecnica, capacità produttiva, capacità organizzativa e una forte “intelligence”, per cui le aziende avranno interesse a ridurre i costi di produzione (soprattutto del personale, che sono i più facili da ottenere), pur mantenendo una maggiore produttività, un’elevata flessibilità, facile possibilità di diversificare il prodotto, ottenendo un’ottima qualità senza doversi spostare dal proprio paese, per cui investiranno sempre più in automazione e i posti di lavoro diminuiranno, proporzionalmente, di più che nel periodo di crisi. Ciò porterà inevitabilmente ad una netta divisione dei lavoratori : ai core workers (i lavoratori fissi, fidelizzati, tecnici) e ai peripheral workers (lavori umili, precari di ogni genere e a tempo), di non lontana memoria, si dovranno aggiungere vecchie categorie, tornate in auge, come “servi” (veri e propri utensili presi a prestito e pagati a ore, ossia gli schiavi dei paesi occidentali) e “schiavi” (quelli veri, che si potranno trovare nei paesi accondiscendenti e utilizzabili per la produzione di materie prime necessarie e/o lavori ritenuti “non etici” dai benpensanti dell’Occidente). 
Qualcun altro ha scritto che per fare maggiori automazioni serviranno più lavoratori per le fabbriche del settore, quindi occuperanno i disoccupati prodotti dalle altre aziende: certamente, ma anche in questo settore le automazioni ridurranno proporzionalmente le assunzioni, perché ormai i robot possono eseguire lavorazioni impensabili solo pochissimo tempo fa.
Le uniche cose certe che non diminuiscono proporzionalmente sono la disoccupazione e la povertà e ciò dovrebbe far pensare molto, anzi, moltissimo i governi, perché, come scrive Luciano Gallino, in Globalizzazione e disuguaglianze: “…chi pensa di rendere permanente, quale elemento naturale della nuova economia al tempo stesso globalizzante e localizzante, un tasso elevato di lavori in vario modo classificabili come insicuri perché temporanei, precari, non competitivi, dovrebbe riflettere sul fatto che il senso di insicurezza per il proprio destino individuale e familiare, unito al tasso di angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più violenti movimenti sociali della storia, di sinistra come di destra”.
Il paradosso è che le vittime della crisi, i lavoratori, non solo stanno pagando durante la crisi, ma dovranno pagare anche i danni che questa lascerà negli anni a venire e se non prenderanno consapevolezza di questo, solo due cose saranno realmente cambiate:
la finanza, i ricchi, le banche, i governi e le fabbriche saranno più forti di prima e con il vantaggio di aver diviso e distrutto le organizzazioni sindacali e asservito i lavoratori, mettendo l'un contro l'altro il mezzo miliardo di lavoratori occidentali (una volta più avvantaggiati) contro il miliardo e mezzo di lavoratori del resto del mondo (una volta più svantaggiati);
e che alla fine della crisi inizierà sicuramente il periodo della miseria, perché i salari saranno adeguati al ribasso e remunerati per il solo effettivo tempo di lavoro (la logica dell'affitto di manodopera)...e i diritti solo un ricordo!



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