sabato 31 agosto 2013

Il lavoro nei secoli: parte prima

Ho trascritto di nuovo questo post perché risultava stranamente cancellato. E mi scuso con i miei lettori.
Ripercorrere la storia del lavoro nei secoli serve per ricordarsi  che tornare indietro nel diritto sacrosanto che ogni persona ha di poter lavorare per una vita dignitosa è un crimine!
Una storia del lavoro, che non avrà una cadenza regolare,  ma che potrete, eventualmente, approfondire nel testo di Dominique Méda, Società senza lavoro, e del quale propongo rapide sintesi, liberando l'autrice da eventuali improprie licenze o arbitrarie interpretazioni da parte di chi scrive.
F.Delano Roosevelt scriveva: "La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature".

Nella Grecia classica il disprezzo per le attività lavorative era evidente, tanto che nei testi di Platone e Aristotele, il lavoro è escluso, o quasi, dall’ideale di vita individuale e collettiva. Tutta la filosofia greca è fondata sull’idea che la vera libertà, il logos, comincia dove la necessità finisce, una volta che i bisogni materiali siano stati soddisfatti.

Aristotele, in apertura della Metafisica afferma: “Solo quando furono a loro tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e agiatezza, gli uomini cominciarono a darsi una tale sorta di indagine scientifica”.
Sul versante opposto della sfera della libertà c’è la sfera della necessità, quella del lavoro, e soprattutto del “ponos”, del lavoro faticoso, delle funzioni degradanti, per essenza servili ( la “terza classe” di Platone), quella dei contadini e degli artigiani ai quali corrisponde l’appetito sensuale, che provvede ai bisogni elementari di alimentazione, do conservazione e di riproduzione. In Aristotele, tali attività sono esercitate dagli schiavi, che sono considerati simili agli animali domestici. Lo schiavo è un utensile animato, non appartiene a se stesso. Non è un uomo.
E gli artigiani, verso i quali Platone sembra volgere un qualche interesse, anche se non certo la ritiene un’attività valorizzata? Senza dubbio gli artigiani possiedono una certa techne, possiedono anche una certa virtù, una qualche perfezione, ma la condanna, da parte di Aristotele, è netta: “Si devono ritenere ignobili, tutte le opere, i mestieri, gli insegnamenti che rendono inadatti alle opere e alle azioni della virtù del corpo (o l’anima) o l’intelligenza degli uomini liberi. Perciò tutti i mestieri che per loro natura rovinano le condizioni del corpo li chiamiamo ignobili, come pure i lavori a mercede, perché tolgono alla mente l’ozio e la fanno gretta”.
All’artigiano non viene riconosciuto il potere di trasformazione, ma si limita, nel migliore dei modi, a soddisfare un certo numero di bisogni limitati, in un rapporto che è essenzialmente di servizio. Secondo Aristotele, l’artigiano non può, non deve essere cittadino, e se, sfortunatamente, accadesse che una città lo inserisse tra i cittadini, si dovrebbe non considerare tutti i cittadini nello stesso modo. Un cittadino  è un uomo libero e si è veramente liberi solo se ci si sottrae ai compiti indispensabili e se non è sottomesso alle necessità. Non si può partecipare alla gestione della polis, alla definizione del suo benessere, se sottoposti alla necessità. Quindi, per Aristotele, non c’è differenza tra l’artigiano e lo schiavo: ciò che fa uno schiavo per un solo individuo, l’artigiano lo fa per l’intera comunità. Ma l’uno e l’altro si occupano della riproduzione della vita materiale e lo fanno obbedendo al bisogno o alla necessità.
Si consideri che una delle attività pratiche più alte consiste nel fare politica; in pratica si definiscono insieme gli obiettivi della vita in società e a tal scopo si utilizzano le nostre facoltà migliori: la ragione e la parola.

Nell’età imperiale, e forse sino alla fine del Medioevo, la rappresentazione del lavoro non subisce particolari cambiamenti. Nell’età imperiale il lavoro è sempre disprezzato e sono gli schiavi a farsi carico dei lavori degradanti e faticosi. Cicerone d li divide in “liberali e servili”: i primi, sono quelli svolti per se stessi e da persone libere; i secondi, sono quelli svolti alle dipendenze di un altro. Come nel mondo greco, nel periodo romano l’opposizione è tra labor e otium (l’otium è il contrario del lavoro, ma non è il riposo o il gioco, ma è l’attività primaria, il contrario di negotium, il non ozio), quindi ne consegue la condanna di quanti sono pagati per lavorare “Indegni dell’uomo libero, e volgari, i mezzi di guadagno di tutti i salariati, dei quali è pagato il lavoro manuale e non quello dell’ingegno; infatti, nel loro caso, il salario stesso è un pegno della loro
schiavitù”, scriveva Cicerone.

Si tenga conto che la mancata valorizzazione del lavoro era dovuta al fatto che non era ancora considerato come il mezzo per rovesciare le barriere sociali e di sovvertire le posizioni acquisite dalla nascita.

Ma è proprio durante l’impero romano che nasce e si diffonde il cristianesimo con la sua nuova immagine dell’uomo e, pur avendo attiguità con il pensiero greco, la superiorità dello spirito sul corpo e forte opposizione del tempo terreno e dell’eternità propria di Dio, seminerà quegli elementi necessari della valorizzazione dell’idea di lavoro. Ma si dovrà aspettare la fine del Medioevo.
Gli argomenti di S Agostino, per una iniziale centralità del lavoro, sono principalmente due: il primo, d’autorità, facendo riferimento a S. Paolo, il quale lo riteneva importante  e ha dato per primo l’esempio praticando il lavoro manuale; il secondo, come legge di natura, perché lavorare per vivere è necessario. Naturalmente non ritiene tutti i lavori buoni: ci sono quelli infami, come ladri, cocchieri, commedianti e gladiatori; poco onorevoli, come il commercio; quindi quelli attinenti all’honestas, i contadini e gli artigiani, in quanto il lavoro delle mani permette di avere la mente occupata da Dio. Leggere e scrivere comunque rimangono le attività più importanti. S. Benedetto, ridurrà lo spazio al lavoro intellettuale, ponendo sul lavoro manuale una particolare attenzione, ritenendolo un antidoto contro la pigrizia e l’ozio: “L’ozio è nemico dell’anima. Perciò i fratelli devono dedicarsi, in tempi determinati al lavoro manuale e in altre ore, pure ben fissate, alla lettura divina”. Sia chiaro, tutto ciò non è all’insegna della valorizzazione del lavoro, che rimane sussidiario alla contemplazione e alla preghiera, quello che traspare è la necessità della fatica, come forma di penitenza. Se il lavoro manuale e intellettuale, fatto in comunità, viene raccomandato, tutto le attività svolte a fine di guadagno, di commercio ecc. viene ferocemente criticato.
Nei fatti il verbo lavorare riguarda i contadini e gli artigiani, tutti rurali, schiavi e poi servi demaniali. Chi lavora è nella zona bassa della scala sociale.

Allo sviluppo di un interesse autentico per il lavoro si contrapponevano due ostacoli: la condanna di ogni attività esercitata al solo fine di un guadagno individuale e la sovra determinazione “dell’aldilà” rispetto al “quaggiù”.

I lavori consentiti sono quelli che assomigliano all’opera divina, cioè che trasformano l’oggetto sul quale agiscono, quelli degli artigiani e dei contadini.
Successivamente si producono due grandi rotture: la prima, nell’VIII e IX secolo, fondata su un’ideologia dello sforzo produttivo, soprattutto in ambito agricolo, promuovendo la sfera scientifica e intellettuale delle tecniche; la seconda, fra il XII e il XIII, che contribuisce a ridurre il numero dei mestieri illeciti, condannando solo quelle attività spinte da cupidigia e amore per il guadagno. E’ l’utilità comune che giustifica il lavoro e la sua remunerazione. Ne risulta una nuova considerazione del lavoro, e non perché la Chiesa è colta da un improvviso interesse o perché i suoi teorici sono interessati alla vita quotidiana degli uomini sulla terra ma, soprattutto, come conseguenza dell’ascesa sociale di un certo numero di classi in espansione che vogliono ottenere un riconoscimento: artigiani, mercanti e tecnici. Tutto ciò fa sì che le invenzioni, da semplici curiosità, conoscono un vero sviluppo. Se si guarda alla struttura sociale, dominata da preti, nobili e guerrieri, cioè chi di fatto non lavora, si capisce che il lavoro non è ancora riconosciuto come un’attività essenziale.
L.Febvre, su Travail:évolution d’un mot e d’une idée, scrive: “Il lavoro o i lavori di cui si parla ancora sono quelli del contadino o dell’artigiano, il lavoro che procura il pane quotidiano e i panni da indossare ma non persegue la ricchezza, il lavoro che salva chi lo esercita dal peggiore dei vizi, il padre di tutti i mali, l’ozio. Non si è ancora compiuta la grande rivoluzione[…]che descrive la vecchia Inghilterra, quella della gente di campagna, dissolversi in un quarto di secolo per far posto a un popolo di operai chiusi nelle fabbriche”.


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