mercoledì 4 settembre 2013

Il lavoro nei secoli: parte seconda (L'invenzione del lavoro)

L’invenzione del lavoro

Continuiamo il viaggio nella trasformazione del lavoro lungo i secoli, ricordando che la sintesi  è liberamente tratta dal libro di Dominique Méda, Società senza lavoro,  del quale consiglio la lettura.

Se ci spostiamo al 1776, anno di pubblicazione dell’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, di Adam Smith, che segue di pochi anni l’elogio dell’arricchimento di Mandeville, in Favola delle api, si constata che alla condanna della volontà di arricchire seguono una serie di esperienze, ricerche, saggi e teorie volti ad aumentare il valore della ricchezza; se nel medioevo il commercio era appena tollerato, adesso è diventato dolce e il lavoro è onnipresente.
La ricchezza diventa qualcosa di assolutamente desiderabile. Ma non è certo l’ossessione della ricchezza che spiega da sola la comparsa del lavoro sulla scena dell’economia. E’ con Smith, tanto da dedicargli il primo capitolo della sua opera, dal titolo Della divisione del lavoro, che il lavoro umano invade la scena dell’economia politica. Per Smith, il lavoro dell’individuo si presenta come una spesa fisica, che ha per corollario lo sforzo, la fatica, il dolore e ammette una concreta trasformazione materiale dell’oggetto. Ma a questa dimensione concreta e facilmente accessibile, ne aggiunge un’altra più astratta, e cioè che il lavoro viene descritto come una sostanza omogenea identica in tutti i tempi e in tutti i luoghi e divisibile all’infinito in quanta. Infondo si deve risolvere il fondamento dello scambio. Tutti gli oggetti che si scambiano contengono lavoro, tutte le cose sono trasformabili e decomponibili in lavoro, in quantità di fatica e di spesa fisica: “Il lavoro è il primo prezzo, l’originaria moneta d’acquisto con cui si pagano tutte le cose”. A Smith non interessano i lavori dei campi, i diversi mestieri, il carattere concreto del lavoro, ma la sostanza in cui ogni cosa può risolversi e che permette lo scambio universale. Adesso si può cominciare a parlare del lavoro. Il primo capitolo è un inno alla produttività del lavoro che permette, come spiegato con l’esempio della fabbrica di spilli, che vedremo in seguito, di produrre sempre di più in un tempo dato. In tutta la sua opera Smith non chiarirà mai cosa intenda per lavoro e “potenza produttiva”, ciò che lo interessa particolarmente è il lavoro è il principale mezzo per aumentare le ricchezze.
Com’è possibile dare un valore al lavoro affinché diventi un’unità di misura per rendere le cose scambiabili? Per Smith sono: da una parte, il tempo di lavoro e, dall’altra, l’abilità e la destrezza del lavoratore. Ecco che diventa illuminante l’esempio della fabbricazione degli spilli, che un tempo veniva eseguita dall’artigiano, che eseguiva la lavorazione per intero e a costi che “lui” determinava.
Per Smith: “la divisione del lavoro, riducendo l’attività di ogni uomo a una sola e semplice operazione e facendo di quest’operazione l’unica occupazione della sua vita, non può che accrescere di molto la destrezza dell’operaio […] la divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità produttive del lavoro”. L’abilità artigianale viene scomposta, semplificata, facilmente ripetibile anche da chi ha lavorato sempre la terra. Il prodotto costa meno, perché all’abilità dell’insieme segue la meccanicità della singola operazione. L’essenza del lavoro è il tempo. E’ da qui che l’idea taylorista trova le sue premesse, destinandosi ad un grande avvenire, ma non certo dal lato del lavoratore.

Il concetto di lavoro continua ad essere costruito per tutto il XVIII secolo, ma ai grandi pensatori non interessa che sia il risultato di un’analisi delle situazioni vissute, ma definirlo in funzione di ciò che intendono per ricchezza.  Il diciottesimo secolo ha inventato contemporaneamente il lavoro come categoria omogenea e come fattore di aumento delle ricchezze. Ma è anche il secolo dove il lavoro è considerato come la più alta manifestazione della libertà dell’individuo e come la parte dell’attività umana suscettibile di divenire l’oggetto di uno scambio mercantile. Da una parte, il lavoro è ormai uno strumento dell’autonomia dell’individuo; dall’altra, esiste un settore dell’attività umana che non può essere distaccato dal suo soggetto e che non fa necessariamente un tutt’uno con esso, dal momento che può essere noleggiato o venduto. E questa concezione verrà clamorosamente confermata dai testi della Rivoluzione francese, che riconoscono tutti nel lavoro una cosa distaccabile, suscettibile di essere comprata e venduta, e considerano compratori e venditori come individui liberi che, al momento in cui stipulano un accordo, sono perfettamente liberi ed eguali. Smith è meno ingenuo, perché sa benissimo che non sono individui uguali e liberi a incontrarsi a contattare, ma che i datori di lavoro possono coalizzarsi, contrariamente ai laboratori; gli imprenditori, inoltre disponendo di capitali, non sono sottoposti alla stessa pressione dei lavoratori che, per parte loro, hanno assoluto bisogno di esercitare quella facoltà se vogliono evitare le morte.
E’il momento del grande scontro fra la politica e l’economia, che si prodigano, entrambe, di trovare il principio capace di dare un’unità alla molteplicità non ordinata degli individui allo stato di natura. Per Smith il lavoro è il centro della meccanica sociale, è il suo strumento d’elezione, perché non si limita a tenere insieme gli individui, costringendoli alla sociabilità, ma regola anche i loro scambi. E’ attraverso quest’ultimo, scintilla di civiltà, che rende la società sempre più ricca, sempre più civile, perché lo scambio economico è sempre uno scambio umano, avvicina gli uomini, per quanto lontani essi siano.
Alla fine del XVIII secolo, quindi, il lavoro si presenta come fattore di produzione e come rapporto contributivo che permette l’instaurarsi di un’interrelazione tra l’individuo e la società. Scrivono Diderot e d’Alembert: ”E’ l’occupazione quotidiana cui l’uomo è condannato dal bisogno, e a cui egli è debitore della salute, della sussistenza, della serenità, del buon senso e fors’anche della virtù”.


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