Ho trascritto di nuovo questo post perché risultava stranamente cancellato. E mi scuso con i miei lettori.
Ripercorrere la storia del lavoro nei secoli serve per ricordarsi che tornare indietro nel diritto sacrosanto che ogni persona ha di poter lavorare per una vita dignitosa è un crimine!
Una storia del lavoro, che non avrà una cadenza regolare, ma che potrete, eventualmente, approfondire nel testo di Dominique Méda, Società senza lavoro, e del quale propongo rapide sintesi, liberando l'autrice da eventuali improprie licenze o arbitrarie interpretazioni da parte di chi scrive.
F.Delano Roosevelt scriveva: "La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature".
Nella Grecia classica il
disprezzo per le attività lavorative era evidente, tanto che nei testi di
Platone e Aristotele, il lavoro è escluso, o quasi, dall’ideale di vita
individuale e collettiva. Tutta la filosofia greca è fondata sull’idea che la
vera libertà, il logos, comincia dove
la necessità finisce, una volta che i bisogni materiali siano stati
soddisfatti.
Aristotele, in apertura della
Metafisica afferma: “Solo quando furono a
loro tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e
agiatezza, gli uomini cominciarono a darsi una tale sorta di indagine
scientifica”.
Sul versante opposto della sfera
della libertà c’è la sfera della necessità, quella del lavoro, e soprattutto
del “ponos”, del lavoro faticoso, delle
funzioni degradanti, per essenza servili ( la “terza classe” di Platone), quella dei contadini e degli artigiani
ai quali corrisponde l’appetito sensuale, che provvede ai bisogni elementari di
alimentazione, do conservazione e di riproduzione. In Aristotele, tali attività
sono esercitate dagli schiavi, che sono considerati simili agli animali
domestici. Lo schiavo è un utensile animato, non appartiene a se stesso. Non è
un uomo.
E gli artigiani, verso i quali
Platone sembra volgere un qualche interesse, anche se non certo la ritiene un’attività valorizzata? Senza dubbio
gli artigiani possiedono una certa techne,
possiedono anche una certa virtù, una qualche perfezione, ma la condanna,
da parte di Aristotele, è netta: “Si
devono ritenere ignobili, tutte le opere, i mestieri, gli insegnamenti che
rendono inadatti alle opere e alle azioni della virtù del corpo (o l’anima) o
l’intelligenza degli uomini liberi. Perciò tutti i mestieri che per loro natura
rovinano le condizioni del corpo li chiamiamo ignobili, come pure i lavori a
mercede, perché tolgono alla mente l’ozio e la fanno gretta”.
All’artigiano non viene
riconosciuto il potere di trasformazione, ma si limita, nel migliore dei modi,
a soddisfare un certo numero di bisogni limitati, in un rapporto che è
essenzialmente di servizio. Secondo Aristotele, l’artigiano non può, non deve
essere cittadino, e se, sfortunatamente, accadesse che una città lo inserisse
tra i cittadini, si dovrebbe non considerare tutti i cittadini nello stesso
modo. Un cittadino è un uomo
libero e si è veramente liberi solo se ci si sottrae ai compiti indispensabili
e se non è sottomesso alle necessità. Non si può partecipare alla gestione
della polis, alla definizione del suo
benessere, se sottoposti alla necessità. Quindi, per Aristotele, non c’è
differenza tra l’artigiano e lo schiavo: ciò che fa uno schiavo per un solo
individuo, l’artigiano lo fa per l’intera comunità. Ma l’uno e l’altro si
occupano della riproduzione della vita materiale e lo fanno obbedendo al
bisogno o alla necessità.
Si consideri che una delle
attività pratiche più alte consiste nel fare politica; in pratica si
definiscono insieme gli obiettivi della vita in società e a tal scopo si
utilizzano le nostre facoltà migliori: la ragione e la parola.
Nell’età imperiale, e forse sino
alla fine del Medioevo, la rappresentazione del lavoro non subisce particolari
cambiamenti. Nell’età imperiale il lavoro è sempre disprezzato e sono gli
schiavi a farsi carico dei lavori degradanti e faticosi. Cicerone d li divide
in “liberali e servili”: i primi,
sono quelli svolti per se stessi e da persone libere; i secondi, sono quelli
svolti alle dipendenze di un altro. Come nel mondo greco, nel periodo romano
l’opposizione è tra labor e otium (l’otium è il contrario del lavoro, ma non è il riposo o il gioco, ma
è l’attività primaria, il contrario di negotium,
il non ozio), quindi ne consegue la condanna di quanti sono pagati per
lavorare “Indegni dell’uomo libero, e
volgari, i mezzi di guadagno di tutti i salariati, dei quali è pagato il lavoro
manuale e non quello dell’ingegno; infatti, nel loro caso, il salario stesso è
un pegno della loro
schiavitù”, scriveva Cicerone.
Si tenga conto che la mancata valorizzazione del lavoro era dovuta al
fatto che non era ancora considerato come il mezzo per rovesciare le barriere
sociali e di sovvertire le posizioni acquisite dalla nascita.
Ma è proprio durante l’impero
romano che nasce e si diffonde il cristianesimo con la sua nuova immagine
dell’uomo e, pur avendo attiguità con il pensiero greco, la superiorità dello
spirito sul corpo e forte opposizione del tempo terreno e dell’eternità propria
di Dio, seminerà quegli elementi necessari della valorizzazione dell’idea di
lavoro. Ma si dovrà aspettare la fine del Medioevo.
Gli argomenti di S Agostino, per
una iniziale centralità del lavoro, sono principalmente due: il primo,
d’autorità, facendo riferimento a S. Paolo, il quale lo riteneva
importante e ha dato per primo
l’esempio praticando il lavoro manuale; il secondo, come legge di natura, perché
lavorare per vivere è necessario. Naturalmente non ritiene tutti i lavori
buoni: ci sono quelli infami, come ladri, cocchieri, commedianti e gladiatori;
poco onorevoli, come il commercio; quindi quelli attinenti all’honestas, i contadini e gli artigiani,
in quanto il lavoro delle mani permette di avere la mente occupata da Dio.
Leggere e scrivere comunque rimangono le attività più importanti. S. Benedetto,
ridurrà lo spazio al lavoro intellettuale, ponendo sul lavoro manuale una
particolare attenzione, ritenendolo un antidoto contro la pigrizia e l’ozio: “L’ozio è nemico dell’anima. Perciò i
fratelli devono dedicarsi, in tempi determinati al lavoro manuale e in altre
ore, pure ben fissate, alla lettura divina”. Sia chiaro, tutto ciò non è
all’insegna della valorizzazione del lavoro, che rimane sussidiario alla
contemplazione e alla preghiera, quello che traspare è la necessità della
fatica, come forma di penitenza. Se il lavoro manuale e intellettuale, fatto in
comunità, viene raccomandato, tutto le attività svolte a fine di guadagno, di
commercio ecc. viene ferocemente criticato.
Nei fatti il verbo lavorare
riguarda i contadini e gli artigiani, tutti rurali, schiavi e poi servi
demaniali. Chi lavora è nella zona bassa della scala sociale.
Allo sviluppo di un interesse autentico per il lavoro si
contrapponevano due ostacoli: la condanna di ogni attività esercitata al solo
fine di un guadagno individuale e la sovra determinazione “dell’aldilà”
rispetto al “quaggiù”.
I lavori consentiti sono quelli
che assomigliano all’opera divina, cioè che trasformano l’oggetto sul quale
agiscono, quelli degli artigiani e dei contadini.
Successivamente si producono due
grandi rotture: la prima, nell’VIII e IX secolo, fondata su un’ideologia dello
sforzo produttivo, soprattutto in ambito agricolo, promuovendo la sfera
scientifica e intellettuale delle tecniche; la seconda, fra il XII e il XIII,
che contribuisce a ridurre il numero dei mestieri illeciti, condannando solo
quelle attività spinte da cupidigia e amore per il guadagno. E’ l’utilità
comune che giustifica il lavoro e la sua remunerazione. Ne risulta una nuova
considerazione del lavoro, e non perché la Chiesa è colta da un improvviso
interesse o perché i suoi teorici sono interessati alla vita quotidiana degli
uomini sulla terra ma, soprattutto, come conseguenza dell’ascesa sociale di un
certo numero di classi in espansione che vogliono ottenere un riconoscimento:
artigiani, mercanti e tecnici. Tutto ciò fa sì che le invenzioni, da semplici
curiosità, conoscono un vero sviluppo. Se si guarda alla struttura sociale,
dominata da preti, nobili e guerrieri, cioè chi di fatto non lavora, si capisce
che il lavoro non è ancora riconosciuto come un’attività essenziale.
L.Febvre, su Travail:évolution d’un mot e d’une idée, scrive: “Il lavoro o i lavori di cui si parla ancora
sono quelli del contadino o dell’artigiano, il lavoro che procura il pane
quotidiano e i panni da indossare ma non persegue la ricchezza, il lavoro che
salva chi lo esercita dal peggiore dei vizi, il padre di tutti i mali, l’ozio.
Non si è ancora compiuta la grande rivoluzione[…]che descrive la vecchia
Inghilterra, quella della gente di campagna, dissolversi in un quarto di secolo
per far posto a un popolo di operai chiusi nelle fabbriche”.
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